“Le volpi portano la parola di Amma, il nostro Dio. Niente di quello che succede sulla terra può sfuggirgli. Le volpi sanno tutto.” Con L’impronta della volpe, lo scrittore maliano Moussa Konaté ci propone un’investigazione d’altri tempi presso un popolo africano fuori dal tempo. E il paragone con Simenon non solo è legittimo ma quanto mai appropriato.
Titolo: L’impronta della volpe
Autore: Moussa Konaté
Editore: Del Vecchio
Traduttore: Ondina Granato
Anno: 2012
La provincia di Bandiagara è situata ai confini orientali del Mali, lungo l’orlo frastagliato di alte falesie a sud del Niger. E’ abitata dal popolo Dogon, che vive ancora in villaggi costruiti di fango, dove le tradizioni animistiche sono mantenute vive dai saggi hogon, che parlano per bocca del loro dio, dopo aver decifrato i segni lasciati dalle impronte di volpe su tavolette d’argilla.
Due morti in circostanze quanto mai singolari gettano un’ombra sinistra sul villaggio di Pigui: due giovani funzionari del Comune sono stati trovati morti nella loro casa, il cadavere gonfio a dismisura e un rivolo di sangue coagulato ai lati della bocca. Benché non ci siano segni di violenza sui cadaveri, le autorità maliane sono convinte si tratti di un duplice omicidio.
Neanche un africano come il Commissario Habib, però, è a suo agio nel condurre un’indagine in quei territori. Inviato per fare piena luce su quegli accadimenti direttamente dal segretario del Ministro della giustizia di Bamako, dovrà calarsi in fretta nella mentalità del popolo Dogon se vorrà salvare la propria vita e quella del suo assistente, l’Ispettore Sosso.
Una volta addivenuto alla soluzione del difficile caso, però, un dubbio atroce gli attanaglierà l’anima: agire secondo la legge che lui rappresenta o la legge ancestrale dei Dogon?
L’impronta della volpe non è solo un bel poliziesco logico-deduttivo, lontano da qualsiasi contaminazione tecnicistico-scientifica, ma anche un piccolo trattato filosofico-antropologico, sorretto da splendide metafore sulla vita dell’uomo, come solo un africano poteva concepire.
“La vita è un cammino. Che si vada in aereo, in bicicletta, in piroga o in moto, la vita sarà sempre un cammino. Arriva fatalmente il giorno in cui si fa un passo falso. Allora, quel giorno, il cammino finisce, la vita si ferma. E’ il destino di tutto ciò che respira, uomini e animali. Non camminare è morire; camminare è morire, un giorno.”
La storia poliziesca costruita dallo scrittore su quel passo falso, per quanto avvincente, risulta essere quasi un espediente per poter comparare due visioni della realtà opposte: quella animistica di popoli ancora tanto legati alle proprie radici e quella deterministica degli uomini civilizzati, nonché effettuare un’analisi dei danni recati dall’impatto del(lo pseudo)progresso su realtà ancora arretrate. Konaté si inserisce così nel dibattito molto sentito degli intellettuali africani sulle problematiche connesse all’integrazione di culture diverse e di organizzazioni politiche ed economiche su strutture antiche, negando le seconde. Per bocca del Commissario Habib, l’uomo “moderno” si interroga addirittura sul suo diritto nell’imporre la legge a popolazioni che la amministrano secondo regole ancestrali. “Non giustifico il crimine” dirà il Commissario in un momento di intensa riflessione “semplicemente lo sto constatando“.
Dal punto di vista stilistico, invece, l’influenza di Simenon è evidentissima. Analizzando nel dettaglio le caratteristiche dei due Commisari – tanto per andare al cuore della questione – si può agevolmente dimostrare la similitudine “Habib sta a Maigret, come Konaté sta a Simenon”: anche Habib ha l’abitudine alla riflessione silenziosa, una spiccata abilità nel condurre gli interrogatori, una singolare attitudine a ricercare “la crepa” nell’animo dei sospettati e una libertà d’azione quasi totale; e Konaté, come Simenon, possiede il dono della disamina efficace e concisa, dell’aggettivazione illuminante, della descrizione non pedante degli ambienti e dei luoghi.
Il quotidiano Libération definisce Konaté “uno dei più grandi scrittori africani contemporanei”. Posso solo aggiungere che auguro al padre di questo poliziotto-antropologo di fare ancora tanta tanta strada.
E visto che necessariamente avrà bisogno di rifocillarsi, noi di Thriller Café pensiamo sia giusto rispettare la tradizione africana, offrendo a Moussa Konaté una caraffa di acqua fresca, segno non solo di ospitalità ma anche di considerazione e ringraziamento per averci regalato una storia tanto profonda e intensa.
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