L’inseguitore, il primo thriller di Matt Hilton, scrittore al quale abbiamo dedicato anche una lunga e interessante intervista, è il libro recensito oggi su Thriller Cafè:
Titolo: L’inseguitore
Autore: Matt Hilton
Editore: Longanesi
Traduttore: S. Mogni
Anno di pubblicazione: 2009
Pagine: 316
C’è un nuovo cow boy in città, avvisate gli outlaws, i fuorilegge, che se la diano a gambe o si preparino a morire. E avvisate lo sceriffo, che si faccia da parte. Si chiama Joe Hunter. I bulli e i prepotenti gli danno sui nervi, e non è saggio, né salutare, infastidirlo.
Ho un debole per Joe Hunter, Hunter come cacciatore. “L’inseguitore”, l’hanno chiamato in Italia. Perché è uno che quando segue una traccia non la molla, anche a costo di finire dritto dritto tra le braccia della morte. Braccia ossute, putrefatte, polverizzate dalla sabbia del deserto…. (Dead Men’s Dust è il titolo originale del romanzo, La polvere degli uomini morti, un titolo, lasciatemelo dire, che non era lì per caso).
E ho un debole anche per Matt Hilton, che ha creato Joe Hunter. Matt sul campo c’è stato davvero: è un ex poliziotto di Carlisle (dove ancora vive) e un maestro di arti marziali, un duro, insomma, che fin da bambino coltiva la tenera passione per i libri e per la scrittura. Di Mr. Hilton è già uscito in UK il secondo romanzo della serie dedicata a Joe, Judgement and Wrath e altri tre seguiranno a distanza sei mesi l’uno dall’altro.
Un po’ di trama.
E’ una storia di fratelli, o meglio di coppie di fratelli, L’inseguitore. Può un fratello essere tanto diverso dall’altro? La risposta non può essere che sì. E’ una storia di caccia, L’Inseguitore. Ma chi è il cacciatore e chi la preda? Joe Hunter è un ex delle Special Forces britanniche, uno che, se lo chiami, più per amore di giustizia che per denaro aggiusta (fix) quello che c’è da aggiustare, a modo suo. E così, quando sua cognata Jennifer – abbandonata con due pargoli a carico dal fratello minore di Joe, John – gli chiede aiuto, lui accorre: prima spacca le ossa a un paio di bulli che la minacciano, poi parte alla ricerca del fratello. Ultimo domicilio conosciuto, USA.
Giunto negli States, Joe si mette in contatto con un suo vecchio compagno di ventura, Jared Rington (Rink), ex SF americano con cui aveva condiviso l’addestramento micidiale e molte sporche missioni. Ai due basta un’occhiata per intendersi ed agire come fossero parti di uno stesso individuo.
Non si può raccontare la trama di un thriller. La parola SPOILER! lampeggiante in rosso e in giallo ad ogni riga, sarebbe quella più utilizzata.
Quindi, per farla breve, sappiate che:
a) L’indagine di Joe e Rink parte dalle poche informazioni estorte a Louise, la nuova donna di John.
b) La storia procede on the road, attraverso gi Stati del Sud, prima lungo tre strade separate, poi su due parallele.
Sulla strada n.1 corrono Joe e Rink in cerca di John, indagando e pestando chi non collabora. A volte uccidendo.
Sulla strada n.2 fugge a gambe levate John, portandosi appresso qualcosa che sarebbe stato più saggio per lui non rubare. Due latini molto pericolosi gli stanno alle costole, e non con buone intenzioni.
Sulla strada n.3 si muove spavaldo e impavido The Harvestman (l’uomo del raccolto, tradotto nella versione italiana Il Mietitore). Chi è? Ingenui a chiedere. E’ Tubal Cain, un serial killer di quelli che non vorreste neppure incontrare negli incubi. O nei libri. Gli piacciono i coltelli, e li maneggia come un artista. Prima ammazza, poi si porta via un souvenir delle sue vittime. Un dito, un orecchio, un braccio, una mano. Quando non se le porta via intere, le sue vittime. The Harvestman semina morte e raccoglie ossa. E’ un serial killer pieno di risorse, e ha capacità non comuni. E’ molto più di quello che sembra. La Cia ne sa qualcosa. E se ne lava le mani lasciando la patata bollente in quelle di Joe e Rink.
Al capitolo 6 le strade 2 e 3 convergono in un’unica strada a due corsie, come i destini di Tubal Cain e di John.
Al capitolo 40 la strada di Tubal e John si incrocia nel deserto del Mojave con quella di Joe e Rink. E‘ lì, nella fredda notte del deserto, che la storia si conclude.
Forse.
“Se vuole il gran finale, noi glielo diamo”, dice Joe a Rink parlando di Tubal. Potete scommetterci quello che non si può scrivere che Joe e Rink manterranno la parola. E gran finale sarà.
Mi è piaciuto? Oh yes! Ho letto il romanzo in inglese. Non lo dico per farmi dire come è brava legge in originale, ma per spiegare il motivo per cui non mi pronuncerò sul lavoro del traduttore, Stefano Mogni. Un lavoro che, dai pochi capitoli che fino ad oggi ho riletto in italiano, mi è apparso molto buono e ben sintonizzato sulla scrittura di Hilton. Non è cosa facile tradurre, rendere in italiano la sintesi e il ritmo della prosa inglese, soprattutto quando i passati remoti incombono. Un esempio velocissimo dal capitolo 15: Tirò su col naso, in italiano. He sniffed, in originale. Got the difference?
Che lo si legga in italiano o in inglese, questo è comunque un grande libro d’azione. Hilton usa la prima persona – a parlare è Hunter, naturalmente – quando racconta di Joe e Rink. La terza persona con gli altri personaggi. Interessante alternanza, di recente notata anche in American Skin di Ken Bruen.
I dialoghi non mancano. Joe e Rink sono due tipi che parlano spesso e volentieri, sono ironici, fanno battute, si prendono in giro. Ricordano il passato. Divertente la scena in cui Joe ritorna con la memoria al loro primo incontro, un incontro a pugni nudi e testate con tre SAS arroganti, forse amici di Nick Stone e di Dan Shepherd (i due ex SAS protagonisti dei romanzi di Andy McBan e Stephen Leather). E mi piace l’idea che ogni volta che queste due macchine da guerra stanno per entrare in azione si chiedano reciprocamente e in modo mooolto educato: “You okay with that?” Ti va bene far così? E’ così che da sempre lavorano e sopravvivono. Rispettandosi.
Hilton dice che la sua è letteratura di evasione. Dice (saggiamente) di non voler lanciare messaggi o esprimere sentenze.
Mi sta bene.
Dice anche di essersi ispirato al cinema americano d’azione, quello con cui siamo cresciuti tutti, o quasi, in Europa. Quello secco, preciso, serrato, senza fronzoli. E dice anche di amare il western (fa un omaggio preciso a John Ford, e al suo capolavoro Sentieri Selvaggi). Mi sta bene.
Perché il romanzo di Hilton è proprio così, come quel cinema, un po’ azione e un po’ western, un’inquadratura dopo l’altra, una pagina dopo l’altra. Progredisce con stile asciutto, come il vento del deserto. Le frasi brevi respirano e ti lasciano respirare. I vocaboli sono plausibili e quotidiani, come i dialoghi e i vari fucking, le parolacce. Come al cinema, Hilton ci fa spesso vivere la stessa scena da due punti di vista, usando un classico montaggio alternato. Ci fa sentire gli spazi. Aria, odori, temperatura, consistenza della materia non sono più solo parole. I cespugli secchi rotolano al vento del deserto, il sole cala all’orizzonte, il lezzo della morte e la polvere invadono le nostre narici. Quando Joe e Rink picchiano, picchiano duro, i crack delle mascelle e dei denti che si scontrano coi loro pugni arrivano alle nostre orecchie, come il sibilo delle pallottole sparate dalle loro SIG Sauer.
I personaggi sono riusciti, ben disegnati. John Telfer, il fratellastro perennemente nei guai di Joe, che molla moglie e figli per abbracciare una vita ancora più disastrosa, nonostante tutto ne esce alla grande.
Non amo i serial killer, e questa è una frase idiota quanto lapalissiana. Non li amo nei thriller, volevo dire. Il fastidio che mi provocano anche quando si muovono nella finzione di un romanzo supera ampiamente il piacere di una lettura appassionante. Ma questo Tubal Cain, pur nella orrida tradizione dell’archetipo che rappresenta, ha qualcosa di particolarmente intrigante e ironico, e ha un modo tutto suo di rivelarsi a noi, di aprirci il suo armadio pieno zeppo di scheletri. E’ pieno di sé, si crede intelligente, bello, ben educato e civile. Non butterebbe mai una carta per terra. Non direbbe parolacce di fronte a una vecchietta. Ma le taglierebbe via il naso volentieri, dopo averle fatto attraversare la strada. Se non avesse sequestrato il fratello dell’uomo sbagliato, il fratello di Joe – Cacciatore – Hunter, probabilmente non avrebbe mai dovuto abdicare e rinunciare alla sua corona fatta di femori e tibie.
Attenzione ai fratelli. E’ la seconda volta che ve lo dico.
Joe. E’ il nuovo cavaliere errante, nobile dentro, micidiale come la lama del suo Ka-bar, fuori. Fa già parte del piccolo esercito dei miei eroi preferiti, dei Jack Reacher, dei Nick Stone, dei Joe Pike. Non so ancora cosa lo muova, se l’onestà, l’amore per la giustizia, l’onore, la dipendenza da adrenalina, la voglia di difendere i giusti e di far secchi i malvagi, o semplicemente il caso. Non so ancora se la sua anima sia in pace o tormentata da incubi e sensi di colpa. Le sue prossime avventure me lo diranno.
Donne, ne ha? Per le signore interessate, Joe rimarrà disponibile (ama ancora la moglie da cui ha divorziato) almeno fino al terzo libro della serie, quando una ventata di romance lo investirà (e non fate smorfie di disgusto, maschietti!).
Anche nei prossimi romanzi il territorio di azione e di conquista di Joe sarà il grande paese, l’America, dove tutto e il contrario di tutto può succedere. Location ideale e agognata da ogni cavaliere errante e da ogni scrittore dei nostri giorni: non solo perché terra vastissima, versatile e varia, ma anche perché già universalmente riconosciuta, accettata e metabolizzata dal pubblico che legge e che va al cinema. Unica perplessità: come farà quel brit di Joe a farsi capire dagli americani fuori da Boston?
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