Veloce, tagliente, freddo. L’inverno del profeta di Hakan Ostlundh è un’ottima spy-story in perfetto stile nordico.
Sarajevo. Una bomba esplode nell’hotel in cui alloggiano alcuni funzionari della SIDA, organismo svedese per la cooperazione internazionale. Uno di loro, Anders Krantz, rimane ucciso; la sua amante nonché suo capo, Ylva Grey, che era stata con lui fino a qualche momento prima, non si spiega perché l’uomo si trovasse alla reception invece che nel ristorante insieme al resto della delegazione; inoltre la insospettisce il modo in cui alcuni individui non ben inquadrati prelevano lei e il suo staff e li interrogano ponendo domande alquanto inconsuete. Quando, contattando la famiglia del defunto, scopre che qualcuno ha requisito tutti i documenti dello studio di Krantz e soprattutto quando scopre che lo stesso è stato fatto nella sua postazione alla SIDA, Ylva capisce che c’è davvero qualcosa di strano. Chi è la donna che ha preso i documenti? Chi è l’uomo nella foto che la polizia di Sarajevo le ha mostrato? Perché si trovava con Anders di fronte ad un bar chiuso, di notte? E dov’è ora Elias, il figlio di Anders? E’ proprio quando il ragazzo la contatta chiedendole aiuto che Ylva comincia davvero ad indagare. Sono tanti, troppi, gli interrogativi e troppo poche le risposte. A chi chiederle, poi? Alla polizia? All’enigmatica Carolina Moler, al segretario di Stato, ai suoi colleghi e superiori della SIDA, al nome appuntato da Anders su un libro? Di chi fidarsi? E chi è la presenza sfuggente che sembra seguire le sue mosse e quelle del giovane Elias? Lei divisa tra l’amore, la perdita e la delusione, lui smarrito per la perdita del padre e per quanto di oscuro cresce nel suo cervello, i due capiscono presto di non potercela fare da soli… l’unica opportunità è unirsi per capire cosa si nasconde dietro gli indizi vaghi lasciati da Anders. Ma ciò che si accingono ad affrontare sembra essere più grande, ramificato, pericoloso e incomprensibile di quanto potessero immaginare.
Con frasi brevi, crude e spietate, Hakan Ostlundh segue la via già tracciata da Stieg Larsson, ne approfondisce i lati oscuri e ne acuisce la crudezza per scovare dall’ombra il lato torbido, nebuloso e insospettabile del potere. Difficile districarsi tra gli organi statali, governativi e di sicurezza, specie se i compiti ufficiali spesso non corrispondono a quelli reali; l’organigramma non è limpido, le posizioni di forza sono volutamente confuse, la gerarchia è falsata. Non è facile orientarsi nelle infinite ramificazioni di una rete di funzionari, politici, industriali, gente corrotta e senza scrupoli che non esita a sacrificare vite per un interesse più grande, personale e oscuro; una terra di mezzo tra il lecito e il losco, tra ciò che è legale e ciò che è interesse, un mondo di favori, scambi, occhi chiusi, talpe e pugnali che sporgono dai vestiti in doppio petto. E nessuno, mai, è chi dice di essere. Spregiudicato e temerario, Ostlundh ci conduce in una corsa rocambolesca nel dedalo di aziende, gruppi, Partiti politici, organi di sicurezza che costituiscono l’apparato meno evidente del potere, regalandoci un quadro ingarbugliato, ma interessante su una società – quella svedese – troppo spesso invidiata, ma non esattamente limpida e virtuosa come pretende di essere. Lo stile, come accennato, è improntato a creare velocità e suspence; i personaggi, be’… in una storia come questa non si può sperare che siano ben delineati, proprio perché tutto qui è sfuggente, basato sull’equivoco, sul non detto. Buono, comunque, il tratteggio dei due protagonisti, Ylva ed Elias, sensuale ed intuitiva lei, impulsivo e tenace lui: una buona accoppiata che regge nonostante le differenze. Molti, ovviamente, i personaggi di contorno, tutti funzionali alla vicenda che, per quanto intricata, trova la quadra e raggiunge l’obiettivo. Lettura consigliata a chi ama i thriller veloci, l’azione ed è disposto a sorvolare, a non comprendere a fondo tutti i dettagli tecnici, prediligendo una discreta storia e un bel pomeriggio di evasione e sani brividi.
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