Elena e Michela Martignoni, nascoste sempre meno dal nickname di Emilio Martini, al quattordicesimo appuntamento con la loro creatura, il commissario Gigi Berté, rinunciano ad essere la voce fuoricampo che narra le vicende del sagace poliziotto col codino e danno direttamente la parola a lui. Infatti questo è il primo romanzo della longeva serie in cui il racconto non è più in terza persona, ma in prima. Ora è lo stesso Berté che si racconta ed è lui a descriverci i costanti duelli con la “Bastarda”, come lui chiama la sua coscienza, sempre implacabile. La scelta ci sembra indovinata, passando in soggettiva questo personaggio, già consolidato nella sua fisionomia psicologica e caratteriale, assume nuova profondità e cattura ancora più efficacemente la sensibilità del lettore.
Ma perché questo cambiamento? Forse, ma è solo una nostra ipotesi, la risposta sta nello stesso titolo di questo romanzo, intessuto di riferimenti e suggestioni letterarie. Chi ama il giallo, di carta e di celluloide, al cognome Bogart accoppia subito un nome: Humphrey. Quindi “Il grande sonno” e cioè Raymond Chandler, la grande stagione del poliziesco americano della prima metà del secolo scorso. La citazione in premessa di un passo del grande Cornell Woolrich è un ulteriore indizio. Elena e Michela hanno respirato a pieni polmoni quel clima, attraverso decenni di appassionanti e appassionate letture e hanno voluto rendere omaggio a quelle seduzione. Ve lo immaginate il detective Marlowe raccontato in terza persona? Scherziamo? Poco importa che l’Hotel Bogart in cui è ambientata questa vicenda non sia a Los Angeles ma a Genova, mentre è molto opportuno che sia un sordido albergo a ore, scenario ricorrente in quella letteratura, costruita su detective che nel sordido spesso devono sguazzarci. E tuttavia questo Hotel ha una caratteristica che lo rende attraente al popolo dei cinefili: nelle intenzioni – ma solo in quelle – vuole rendere omaggio all’età dell’oro del cinema hollywoodiano. La camere non hanno numeri ma ognuna è intitolata ad una stella di quell’epopea. Al primo piano le attrici, Greta Garbo, Grace Kelly…, al secondo gli attori Gary Cooper, Gregory Peck… e naturalmente Humphrey Bogart. Proprio nella camera Bogart, in una calda mattina di giugno, viene trovato cadavere un uomo che la sera prima vi aveva preso alloggio. Due colpi d’arma da fuoco, il volto deliberatamente sfigurato con un corpo contundente per renderlo irriconoscibile. Dalla stanza è sparito qualunque oggetto che possa permettere un’identificazione, documenti, cellulare, persino gli abiti sono stati portati via. Nessun elemento può nemmeno permettere di identificare la bella bruna che ad un certo punto è andata a trovarlo, si è trattenuta con lui e si è poi volatilizzata. Al Bogart non si fa troppo caso alle regole, la gente che lo frequenta per incontri sessuali mercenari o clandestini esige l’anonimato, niente registrazione di documenti, niente domande indiscrete agli avventori. Gil Picasso, l’altero proprietario, uno zitellone con pretese da uomo di mondo e Tommaso Zunino, stralunato portiere di notte, si giustificano: o si fa così o non si lavora. Questa volta però c’è un morto ammazzato e l’affare è quanto mai oscuro. Tanto che il Questore ordina proprio a Bertè, titolare del periferico commissariato di Lungariva, di spostarsi nel capoluogo, per gestire direttamente l’indagine. Perché Gigi è sì un poliziotto atipico, spesso scomodo, ma tutti riconoscono il suo indiscutibile fiuto.
A fargli gli onori di casa nella polizia della Superba, Bertè ha la fortuna di trovare il malinconico ma simpatico ispettore Domenico Romeo, anche lui di origini calabresi. I due legano subito e sarà una fortuna per le indagini, perché si forma un’ottima squadra della quale in qualche modo entrerà a far parte anche la bella Ines Ricci, titolare di un piccolo caffè che sta proprio di fronte all’Hotel Bogart. Bertè elegge questo accogliente locale e i suoi traballanti tavolini esterni a sua base operativa. E da qui parte un’altra citazione letteraria delle autrici, perché a questo punto il nostro Gigi comincia ad assumere un atteggiamento alquanto simenoniano; è lui stesso a dirci di sentirsi un po’ Maigret per questo costante appostamento nel bistrot, per questo lasciarsi permeare gradualmente dai ritmi e dagli umori di quel pezzo di Genova nel quale deve calarsi.
Inutile dire che la tecnica funzionerà. L’identità della vittima sarà svelata e, passo dopo passo, Berté fara luce sulla verità, una verità sepolta dal tempo o, meglio, che qualcuno si illudeva che il tempo avesse sepolto.
Ci piace molto l’intrigante particolare che le due autrici calano al centro del romanzo. Per Berté l’illuminazione che da svolta all’indagine avviene in una libreria, mentre chiacchiera on un amico scrittore, una frase di quest’ultimo accenderà la lampadina. A dimostrazione che l’amore per i libri consente sempre di avere una marcia in più.
In questo romanzo vediamo poco Marzia, la dolce compagna di Berté, ma la signora conquista tutta per sé la scena finale, con un colpo a sorpresa che tutti gli amici di Gigi non potranno che gradire.
Il “Bogart” ci è sembrato uno dei romanzi meglio costruiti e più coinvolgenti delle sorelle Martignoni, per la coerenza della trama, il suo andamento non serrato ma avvincente, il susseguirsi di ritratti psicologici accurati e profondi: nei romanzi di Elena e Michela non esistono mai personaggi anonimi, nemmeno fra quelli secondari, e questa è buona letteratura.
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- Martini, Emilio (Autore)
Articolo protocollato da Fausto Tanzarella
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