Mirko Zilahy ha da poco pubblicato per Longanesi il suo ultimo romanzo: “L’uomo del bosco”. Il giovane autore ha lasciato per un attimo da parte il suo personaggio storico, il profiler Enrico Mancini, per confezionare un’opera polifonica e complessa che sfugge a una prima sommaria catalogazione. Non si tratta infatti solamente di un thriller investigativo al pari delle sue opere precedenti, ma in questo romanzo trovano compendio una serie di generi molto diversi, come il romanzo di avventura, il romanzo epistolare, con tratti che non esitiamo a definire di introspezione psicologica, il romanzo di formazione, il tema naturalistico e, talvolta, addirittura tratti di epopea western. Possiamo però dire che, alla fine, tutta la narrazione conserva una sua anima e una sua fisionomia di fondo.
Il protagonista è lo scienziato John Glynn, geologo e professore di fama mondiale, divorato dalla sete di avventura e completamente assorbito dalla sua ultima scoperta scientifica, la sonda SismoTime, che dovrà aiutare l’umanità a prevedere i terremoti. Ma proprio perché il romanzo è un’opera a più voci, al suo fianco ci sono altri personaggi, che faticheremmo a definire minori. Come l’ispettore Rico Trivelli, personalità libera e indipendente, per questo marginalizzato dalla polizia e relegato al ruolo di direttore di un carcere. Anch’egli, come Glynn, è assetato di verità e, non credendo fino in fondo alla versione ufficiale relativa a un caso di suicidio, comincia un’indagine molto personale, che lo condurrà a rischiare la vita. O come Liam Glynn, padre di John, figura che a poco a poco emergerà dalla struttura narrativa del romanzo per occupare prepotentemente la scena.
Avrete capito che questa è un’opera nella quale saltano gli schemi tradizionali. Il palcoscenico prevede una pluralità di attori, la sequenza narrativa viene sapientemente decostruita, i ritmi sono diversificati. A pagine che si susseguono con passo veloce e incalzante, si alternano descrizioni rarefatte e lente. Lo scavo della personalità dei personaggi viene giustapposto alla descrizione, anche dettagliata, di ambienti naturali. Lo scenario è quello degli Appennini centrali italiani, in particolare la zona situata nei pressi del Lago di Bolsena. Ambiente meraviglioso, che ci ricorda che la vera protagonista del romanzo è lei: la Terra, o più in generale la natura. Il nostro pianeta visto in tutta la sua straordinaria bellezza, ma anche nei suoi lati più nascosti e reconditi, oscuri. Così come una bella persona può svelare, a una più fine indagine psicologica, tratti più in ombra, impensati e quasi impensabili.
A ben vedere, è infatti questa la spina dorsale del romanzo, il rapporto tra ciò che appare da fuori e ciò che si cela negli strati più intimi delle cose. Quello che nel profondo connota veramente una cosa, una persona, persino il nostro pianeta. E la sete che l’umanità ha sempre avuto di conoscenza, di voglia di scoperta, di tentativo di comprensione degli strati più intimi, fino al centro e all’essenza delle cose (“Viaggio al centro della Terra” di Jules Verne è uno dei protagonisti assoluti di questo romanzo).
Su questo tema portante, si innestano numerosissime suggestioni. C’è il tema dell’ambivalenza della Natura: eden o incubo a seconda delle circostanze (da qui il titolo, che riguarda una misteriosa “presenza” nei boschi che si trovano nei luoghi della scena). C’è il tema, come già detto, dell’apparenza in contrasto alla verità profonda delle cose. C’è il tema delle scienza come grandiosa avventura di scoperta della natura. E, in ultimo, il tema dell’infanzia come rito di passaggio verso l’età adulta.
Non è però un romanzo che ci lascia molta speranza. Gli esseri umani, ci dice in fondo Zilahy, sembrano essere inevitabilmente e quasi drammaticamente attratti verso la profondità delle cose, alla continua ricerca di un Santo Graal, che una volta trovato, non dischiude le porte a un orizzonte di senso, ma ci lascia, inermi e sofferenti, preda della disperazione.
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