Sin dal suo primo romanzo, “Il maestro della testa sfondata”, ritengo Hans Tuzzi, al secolo Adriano Bon, un autore autentico, grazie al quale il giallo italiano vive una delle sue massime espressioni; e ciò vale anche per l’ultimo romanzo, “Ma cos’è questo nulla?”, della lunga e fortunata serie che vede protagonista Norberto Melis, Commissario di Milano, oramai dimessosi dal servizio poiché stufo di episodi poco chiari che vedono coinvolti i vertici della Polizia.
In questa vicenda, ambientata nel 1994 in un’Italia con i postumi di Tangentopoli e alle prese con l’ennesima crisi politica (che preluderà alle dimissioni del Governo l’inizio dell’anno successivo), Melis viene contattato da una sua vecchia conoscenza, ex questore del capoluogo lombardo adesso alto funzionario dello Stato; l’uomo gli chiede di occuparsi di un caso irrisolto di omicidio avvenuto otto anni prima in una piccola città del Nord-Est dove, in un appartamento in cui stava lavorando come babysitter, una adolescente è stata brutalmente uccisa. Proprio perché irrisolta, la circostanza non dirada del tutto le ombre del sospetto su un candidato favorito a un ruolo di ministro del nuovo, probabile Governo. In un primo momento scettico al riguardo e non intenzionato ad accettare, anche a causa della prematura morte dell’amata Fiorenza, il cui ricordo gli è insostituibile e dolorosamente indelebile, Melis acconsentirà ad indagare per senso di giustizia nei confronti della povera ragazza, ma anche perché di mezzo c’è quella politica che delude così spesso le aspettative da inculcare senza soluzione di continuità la convinzione che le cose debbano andare solo in un certo modo.
Giunto sul posto, per la prima volta in carriera privo di un ruolo ufficiale e sotto mentite spoglie per non destare sospetti tra i cittadini e le locali autorità per nulla inclini a rivangare il tragico cold case, Melis si cala nella scettica atmosfera cittadina, dove sta prendendo sempre più piede un movimento politico separatista, cercando di districarsi tra i tentativi di depistaggio, a cui viene indirizzato, per far luce sul mistero e sull’omertà che lo avvolge. L’indagine dovrà vedersela con la diffidenza degli autoctoni, alcuni di loro adepti di una setta esoterica sorta nella zona e molto in auge all’epoca del drammatico fatto, e farà emergere le menzogne, i sotterfugi, le immacolate realtà familiari di facciata che nascondono sesso clandestino e tradimenti, gli squallidi interessi sotto banco e il clientelismo di un’ “italietta” in cui, citando lo stesso Melis, “la politica è come allenare la Nazionale di calcio, tutti quelli che non lo fanno sono convinti che lo saprebbero fare meglio.”
Oltre che apprezzatissimo romanziere, Hans Tuzzi è anche un rinomato saggista nel campo della bibliofilia e storia del libro (materie per cui il suo stesso protagonista, Norberto Melis, nutre una forte passione). Tali vocazioni si percepiscono nitidamente nelle sue storie, nelle quali ci rende partecipi con una scrittura inconfondibile, elaborata, forbita, dove ogni dettaglio è definito minuziosamente, con un’attenzione quasi maniacale, come al vaglio di una onnipresente lente d’ingrandimento: dall’architettura di un edificio all’arredamento di una stanza, dalla precisa illustrazione delle portate di un pasto all’accurata descrizione di un personaggio, primario o secondario che sia, nei suoi movimenti, nell’abbigliamento, nelle espressioni, nei pensieri che gli turbinano in testa e persino nel linguaggio, attraverso il quale fa sovente uso di dialetti locali. Niente è lasciato al caso, tutto è delineato ed esposto per rendere più trasparente e realistica la rappresentazione al lettore, per il quale è pressoché impossibile non ritrovarsi immerso negli ambienti e nell’atmosfera investigativa.
“Ma cos’è questo nulla?” evoca l’indefinito delle nostre esistenze, l’affannarsi quotidiano alla continua e disperata ricerca di consenso, di appoggi, di amicizie, di interessi comuni, di appagamenti personali, tutto per le illusorie velleità di affermarsi agli occhi degli altri (ma anche, e principalmente, di se stessi) e di arrivare a comprendere l’intangibile, reale significato d’insieme della vita, che purtroppo si riduce a nient’altro che a un barcamenarsi tra una piccola miseria e l’altra.
Perché fondamentalmente nulla è mai come appare, e dal momento che questo romanzo segnerà l’ultima indagine di Melis, emblematico è un suo pensiero che sembra racchiudere l’essenza di tutta la sua vita professionale e non, e più che mai riguarda ciascuno di noi: ricordando quello che soleva dirgli l’adorata Fiorenza, si ripete che “certe cose bisogna viverle, non descriverle. E certe verità, più se ne parla più le si offusca. La verità raramente è pura, mai semplice.”
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