Feltrinelli porta nuovamente nelle librerie italiane Miami Blues di Charles Willeford, a parecchi anni di distanza dall’edizione di Marcos y Marcos (2003) e dalla precedente di Phoenix del 1996.
Miami Blues è apparso in originale con lo stesso titolo nel 1984 e ci viene riproposto con la traduzione di E. Bussolo.
Torna così sui nostri scaffali uno dei più interessanti autori di noir statunitensi, e lo fa con il romanzo che ha segnato l’inizio della sua opera più nota, quella “quadrilogia di Miami” che ha influenzato più di un autore dopo la metà degli anni ottanta e che viene citata come ispirazione anche da Quentin Tarantino.
Charles Willeford, come tanti altri scrittori di crime e noir, ha vissuto in modo molto particolare prima di raggiungere la fama con i suoi romanzi, forse nel suo caso ancora più particolarmente di altri.
Orfano in tenera età, Willeford diventa ben presto un vagabondo per poi, a sedici anni, arruolarsi nell’esercito.
Segue quindi un periodo di una ventina d’anni durante il quale il futuro scrittore combatte nella Seconda Guerra Mondiale e nelle Filippine. Abbandonato l’esercito, non prima di aver accumulato varie onorificenze, Willeford passa altri anni dedicandosi, come di consuetudine per figure simili, ai mestieri più svariati.
Pittore, speaker radiofonico, pugile e allenatore di cavalli: tutte esperienze che, aggiunte agli anni trascorsi in uniforme, gli consentono quindi di scrivere opere di vario tipo, con ottimi risultati quali Nato per uccidere (Cockfighter, 1962 – Hobby & Work Publishing, 2005) e Il quadro eretico (The Burnt Orange Heresy, 1971 – Bompiani, 1996).
È però con la quadrilogia di Miami che Willeford raggiunge l’apice di stile e contenuti, creando una metropoli putrescente e corrotta, sfiancata dalla tenaglia rappresentata da criminalità collegata all’immigrazione e speculazione edilizia.
All’ombra delle palme della Florida di Miami Blues si muovono personaggi spesso privi di sfumature, tutori della legge incorruttibili e criminali dal dubbio equilibrio psicologico.
Hoke Moseley è stanco; ha passato l’intera giornata a indagare su un quadruplice omicidio e ora vorrebbe solo riposare nella sua minuscola stanza all’El Dorado Hotel di Miami, sorseggiando un po’ di brandy e sprofondando in un meritato oblio. Ma forse proprio la stanchezza, unita a una depressione che gli sembra sua compagna fedele da ormai troppo tempo, gli allenta l’attenzione e così, quando bussano alla porta, Moseley apre senza pensarci più di tanto.
Il risultato è un ricovero all’ospedale per svariate contusioni e una mandibola non tanto a posto: qualcuno lo ha pestato per bene non appena ha spalancato l’uscio e ora Hoke sta cercando di pensare a chi può essere interessato a malmenarlo fino a farlo svenire e sottrargli distintivo e pistola.
A dire il vero, ma non è particolare che Moseley abbia tanta voglia di raccontare in giro, gli hanno rubato anche la dentiera: quale nemico del suo passato può arrivare a tanto? Ma la pista della vendetta non porta ad alcun risultato e ben presto Hoke Moseley comincia a pensare che i responsabili siano altri, magari una giovane prostituta non così stupida come vuole apparire e il suo fidanzato, un ex detenuto dal grilletto facile e con scarso controllo sulle sue pulsioni.
Il tutto, tanto per complicare le cose, sembra essere collegato allo strano omicidio di un pappone Hare Krishna.
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