“Dati ufficiali del 1962: a Roma sono avvenute 91 rapine (di cui, 58 risolte dalla Polizia), 14 omicidi (12 risolti), 27 estorsioni (21 risolte), 922 truffe di cui per ben 682 s’era trovato il colpevole e 7 infanticidi.” Numeri di “un altro secolo”, ma che rendono evidente come i coevi delitti Wanninger e Chourbagi – avvenuti a distanza di pochi mesi e a pochi metri da Via Veneto – ebbero enorme risonanza nella Città Eterna. Due delitti “esotici” e sensazionali, le cui vicende processuali hanno risentito dapprima dell’iniziale giustificato clamore e solo successivamente anche delle lentezze procedurali della legge italiana.
Avvalendosi della propria competenza e del proprio istinto, nonché di tre sterminati archivi – Atti dei Processi Wanninger e Bebawi presso l’Archivio della Corte d’Assise di Roma, Archivio Fotografico de “L’Unità”, Emeroteca del Senato della Repubblica – Fabio Sanvitale e Armando Palmegiani hanno compiuto l’impresa di ricostruire le vicende dei due casi giudiziari che scossero la Dolce Vita di Via Veneto negli anni del Boom economico: l’omicidio di Christa Wanninger e di Farouk Chourbagi. Il risultato di tanti sforzi non è soltanto un libro accurato e pregevole, ma addirittura il disvelamento di particolari sfuggiti agli investigatori di allora che ha permesso ai due Autori di riscrivere due delle più intricate pagine di cronaca nera italiana.
2 maggio 1963, ore 14.34.
La Volante Siena Monza 85 è giunta all’indirizzo di Via Emilia 81, chiamata ad intervenire per il ferimento di una donna. “La donna dal cappotto verde” è agonizzante sul marmo del pianerottolo del quarto piano. A nulla varranno i soccorsi e il trasporto in ambulanza in ospedale, dove giungerà cadavere. Dalle prime testimonianze si evincerà che un uomo, vestito con un completo blu, scendeva le scale proprio mentre salivano i primi soccorritori, allertati dalle grida di una donna. Di quell’uomo-in-blu venne stilato subito un identikit che, sebbene tratteggiato con tecniche che definire ora antiquate è un eufemismo, si rivelerà essere davvero il ritratto dell’assassino. Solo il 15 marzo 1988, a venticinque anni di distanza, la Cassazione confermerà che l’omicida è proprio l’uomo del primo ritratto.
20 gennaio 1964, ore 10.
Al numero 9 di via Lazio, la segretaria trova a terra nel suo ufficio il corpo senza vita di Farouk Chourbagi, ventisettenne presidente della società di import-export Tricotex. L’uomo è stato ucciso con vari colpi di pistola e su suggerimento dello zio Mounir, la Polizia inizia ad indagare su Claire Bebawi, una cittadina svizzera di origine egiziana, con la quale il giovane intratteneva una burrascosa relazione extraconiugale. E’ proprio dal cognome di Claire e di suo marito Joussef che l’omicidio Chourbagi assumerà il più noto epiteto di caso Bebawi. I due coniugi, immediatamente accusati dell’omicidio, risulteranno abilissimi nello smentirsi o nell’accusarsi a vicenda, rendendo difficilissima l’attribuzione di responsabilità da parte delle giurie chiamate a giudicarli in primo e secondo grado. Joussef ha sparato per gelosia, ma Claire gli ha gettato il vetriolo sul viso per rabbia, perché Farouk voleva lasciarla. Oppure ha sparato Claire, per vendicarsi dell’abbandono e il marito ha cercato di proteggerla mentendo. Ma chi ha gettato il vetriolo? Dopo centoquarantadue udienze, il 22 maggio 1966 la Corte d’Assise di Roma li assolverà entrambi per insufficienza di prove. I due si trasferiranno all’estero, da dove apprenderanno due anni dopo di essere stati condannati in secondo grado a ventidue anni ciascuno per omicidio aggravato. La Cassazione annullerà tale sentenza nel dicembre 1970. Nel giugno ’72 la Corte d’Assise d’Appello di Firenze confermerà i ventidue anni e la Cassazione si pronuncerà definitivamente nel 1974. Nel frattempo gli ex coniugi Bebawi si saranno trasferiti uno in Svizzera e l’altra in Egitto, due Stati senza possibilità di estradizione. Chi sparò e come andarono davvero le cose?
Sanvitale e Palmegiani sono stati tanto abili da ricostruire la dinamica degli spari scovando il tassello mancante di quell’intricato puzzle, che per nessun motivo vogliamo svelarvi affinché assaporiate fino in fondo il gusto di un’investigazione stile cold case.
Come abbiamo già evidenziato, Morte a Via Veneto è un libro davvero pregevole per molti aspetti e i due autori ben hanno fatto a confermare la formula del precedente saggio Un mostro chiamato Girolimoni, consegnandoci anche questa volta un libro parimenti fruibile da tecnici o da semplici lettori, per via del tono fresco e colloquiale con il quale si trattano materie delicate come la ricostruzione della scena del crimine o il tratteggio della psicologia dei colpevoli. Tecnici e rigorosi, quindi, ma anche chiari e divulgativi.
A Thriller Café non ci stanchiamo mai di lodare libri così ben fatti ed Autori così ispirati. Restiamo in attesa della prossima investigazione…
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- Sanvitale, Fabio (Autore)