Timecrime continua la meritoria impresa di ristampa delle opere di Derek Raymond e apre il suo 2017 con Il museo dell’inferno, già pubblicato in precedenza da Meridiano Zero (2002 e 2011), che mantiene la traduzione di Alberto Pezzotta.
Apparso in originale con il titolo di Dead Man Upright (Time Warner Books UK, 1993), Il museo dell’inferno è il quinto titolo della serie Factory e il penultimo del celebre autore inglese, che morirà poco dopo, il 30 luglio 1994, a Londra.
Considerato da alcuni critici un episodio minore nella carriera di Derek Raymond, Il museo dell’inferno è, al contrario, un ulteriore perfezionamento o, se si vuole, un giro di vite nel lungo percorso letterario che ha portato Robert William Arthur Cook (questo il vero nome dello scrittore) a scandagliare con progressiva profondità l’animo umano.
Quel che può non aver convinto alcuni lettori è l’anomala divisione in due parti del romanzo, che inizia come un noir tutto sommato classico, seppur arricchito dallo stile, dal linguaggio e dalle efferatezze tipiche di Raymond, per poi concludersi in una seconda parte che, sfruttando il meccanismo della confessione del serial killer, tenta di spiegare ancora una volta cosa sia il male e perché lo si compia.
Ronald Jidney è un serial killer tanto crudele e violento quanto difficile da identificare, capace di nascondere le sue esplosioni maniacali sotto una coltre di impeccabile normalità e banalità. Quasi fosse un pittore che impiega materia organica, Jidney fa a pezzi le proprie vittime per poi ricomporne i corpi in una mostra dell’atrocità che ha ben pochi uguali.
A dargli la caccia è un sergente della A14, sezione Delitti Irrisolti, un uomo che ha già incontrato fin troppe volte il male e l’orrore e che, pur ormai solitario e stanco, continua una lotta e una indagine che paiono quasi esistenziali. Il sergente viene messo sulla pista giusta da un ex collega che nutre più di un sospetto nei confronti di un vicino poco comunicativo e, cominciando a scavare sotto la crosta della banalità e della quotidianità, scoprirà un museo degli orrori, violento e aberrante.
Se per Ronald Jidney “l’unico modo di scampare all’inferno è diventare l’inferno”, potremmo quasi dire che per il sergente “l’unico modo di scampare all’inferno è combattere contro l’inferno”.
Per Derek Raymond, credo, si potrebbe invece dire che “l’unico modo di scampare all’inferno è conoscere e narrare l’inferno”, che è comunque una forma di resistenza e lotta.
L’inferno continuerà a esistere, ma noi avremo fatto il possibile per non contribuire alla sua esistenza.
Per conoscere l’altro, e quindi anche e soprattutto il male e l’inferno, occorre viaggiare e cambiare molte volte in vita, così da avere più punti di vista. E Raymond è stato maestro del viaggio e delle nuove identità: tanti Paesi, tanti mestieri (alcuni dei quali illegali), tante lingue, tanti matrimoni, tante classi sociali.
Questo lo ha portato dove voleva arrivare praticamente da sempre, ad allontanarsi dal suo io di partenza, che apparteneva a una delle classi più cieche e incapaci di conoscere l’altro, ovvero la borghesia.
Il museo dell’inferno non raggiungerà forse le cime di altri suoi titoli quali Il mio nome era Dora Suarez, ma rimane tassello importante della poetica di Derek Raymond e un noir da raccomandare assolutamente a chi chiede da questo genere qualcosa di più del mero intrattenimento, che troppo spesso lo ha connotato negli ultimi decenni.
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Stanze nascoste
Incubo di strada
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- Raymond, Derek (Autore)