Agatha Christie sta al giallo come Nicolas Flamel sta all’alchimia. L’abilità nel combinare gli elementi seminali di una storia d’investigazione classica va ben oltre quella di un autore derivativo, che si inserisce in un genere ibridandolo, se del caso innovandolo, ma senza definirne i caratteri e gli stilemi di base. La Christie ha in buona parte inventato, non soltanto miscelato, gli ingredienti che compongono le ricette delle sue storie. Tanto che il risultato finale ha spesso stabilito le modalità narrative del whodunnit più tradizionale, creando un filone nel quale molti l’hanno seguita.
Tuttavia, non sempre l’arte alchemica della Christie ha saputo esprimersi al meglio, come dire che non tutte le ricette danno luogo a capolavori culinari. È il caso di Non c’è più scampo, romanzo uscito nel 1936 con il titolo originale di Murder in Mesopotamia. Si tratta di una delle tre incursioni in Medio Oriente dell’autrice di Torquay che vengono inserite nella cosiddetta Trilogia esotica, a cui però bisognerebbe aggiungere tra gli altri C’era una volta (ambientato nell’antico Egitto) e Il mondo è in pericolo (che si svolge a Baghdad).
La trama del romanzo è piuttosto semplice. L’immancabile delitto viene commesso nell’ambito di una spedizione archeologica, i cui componenti alloggiano tutti in una casa araba non distante dagli scavi. Già qui un elemento classico: la mappa dell’abitazione, composta da numerose stanze e laboratori intorno a un cortile rettangolare, campeggia in bella vista a pagina 23 dell’edizione recensita. Secondo elemento tipico: un ambiente circoscritto, quasi un mondo in miniatura con le sue regole precisamente definite, i ritmi immutabili, le dinamiche consolidate. Questo impianto, che nel corso della storia viene assimilato molte volte dai personaggi a una famiglia (felice?) in cui si ride, si condivide e ci si diverte lavorando, viene turbato prima ancora che dal delitto, dalla presenza di Louise, la moglie del capo della spedizione, il professor Eric Leidner. Terzo elemento da manuale: l’omicidio è un enigma della camera chiusa.
Dal punto di vista formale, sembra che tutte le frecce narrative siano nella faretra di Agatha. Nelle ampolle i processi alchemici stanno elaborando i metalli, ma la trasformazione in oro non avviene e anzi, il risultato è perfino annacquato, senz’anima. Una prima scelta opinabile è il fatto di individuare l’io narrante della vicenda nell’infermiera Amy Leatheran. Sarà lei a fare da partner a Poirot nell’indagine, ma soprattutto il suo personaggio funge da filtro verso il lettore. Se il buon Hastings ci aveva abituato a una pedissequa ottusità che equilibrava l’ego di Hercule, qui l’alchimia tra investigatore e spalla non scatta. Il coinvolgimento della Leatheran nella trama è in qualche modo forzato, e la sua mentalità pragmatica priva la scrittura e la narrazione della Christie di quel tocco alle volte sottilmente ironico ma sempre magistrale a cui siamo abituati. A ben vedere questo vale anche come elogio alla tecnica dell’autrice, talmente padrona del proprio stile da riuscire a semplificarlo e quasi ad appiattirlo, adattandolo alle capacità di un’infermiera incaricata di raccontare la vicenda, ma priva di qualsiasi velleità letteraria. A livello di coerenza dell’intero romanzo, questa è una mossa coraggiosa e ben riuscita; il problema è estetico, dato che si perdono le sfumature e lo spessore con cui la Christie ci vizia di solito.
Louise Leidner è caratterizzata da maggiori chiaroscuri. Descritta dagli altri personaggi in termini nettamente contrastanti, rimane fino all’ultimo una figura ambigua più che enigmatica. Perfino a libro terminato non si riesce a decifrarla, e rimane il dubbio se si tratti di un personaggio positivo o negativo, capace com’è di grandi slanci e allo stesso tempo di macchinazioni e piccole meschinità. Louise è la pietra gettata nello stagno che ne altera la superficie e ne perturba la quiete, agitando animi e corpi, come si addice a una donna tanto intelligente quanto affascinante. La sua interazione con la Leatheran è interessante, ma per certi versi anche deludente. L’infermiera è subito conquistata dalla moglie dell’archeologo, tanto da avere nei suoi confronti un afflato poco plausibile e sostanzialmente ingiustificato. Questa è una crepa evidente nella costruzione psicologica di personaggi e rapporti, che a un’Agatha al massimo della forma non sarebbe sfuggita.
Il difetto, peraltro, riguarda l’intero romanzo. È come se la Christie avesse voluto fondare la trama sulle interazioni dei personaggi, i cui tratti caratteriali li accompagnano sempre costanti, come degli epiteti omerici, rimanendo però solo in superficie a discapito dell’approfondimento psicologico. A farne le spese è il generale senso di verosimiglianza, più volte messo alla prova, specie in prossimità del finale. Persino Poirot, che certo non difetta quanto a personalità, rimane più appannato del solito. Le celluline grigie funzionano a dovere, ma la sua partecipazione è poco incisiva. La soluzione dell’enigma è certamente sua, ma la l’illuminazione finale arriva quasi per caso, indotta più da eventi e osservazioni fortuite che non da un rigoroso processo deduttivo. Forse anche Hercule ha risentito dello spaventoso sole del deserto.
Per evitare qualsiasi indebita anticipazione non accenneremo alle sue dinamiche, ma l’espediente della camera chiusa, pur ingegnosamente risolto, non vale a emendare le pecche di un romanzo per molti versi sottotono, certamente non uno dei migliori dell’autrice. Da segnalare l’annotazione che colloca questa avventura immediatamente prima del fatidico viaggio di Poirot sull’Orient Express, un elemento di continuity che fa l’occhiolino al lettore più fedele.
Recensione di Alessandra Ghilardi e Alessandro Rossi
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- Christie, Agatha (Autore)