Jim Thompson torna alla ribalta grazie ad HarperCollins, che ha ripubblicato il noir del 1949 Nulla più di un omicidio, un hardboiled crime noir di grande impatto, che si abbina benissimo con un Westward Whiskey, un’eccellenza dell’Oklahoma proprio come il nostro Autore.
Alla fine degli anni ’40 a Stoneville, una cittadina di provincia americana, Joe Wilmot e la moglie Elizabeth gestiscono un cinema ben avviato e un matrimonio giunto al termine. Andare ognuno per la propria strada non è però facile, perché gli interessi economici di quell’attività intestata alla moglie li legano a doppio filo. Quando però Elizabeth scopre che il marito si è invaghito dell’insignificante domestica Carol, propone ai due di farsi da parte, fingendosi morta, per intascare i soldi dell’assicurazione.
Poi c’era Elizabeth che diceva: “Bene, Joe. Finalmente ho pensato a una bella cifra tonda.” E io, quasi tremando tra me poiché sapevo di che somma si trattava, e cercando di assumere un tono scherzoso, “Già, immagino che vorrai all’incirca venticinquemila dollari.” Dev’esserci stato qualcos’altro, ma ora non riesco a ricordarlo. (pag. 28)
Tra loro tre e i soldi del risarcimento, però, c’é una piccola formalità da sbrigare: nulla più dell’omicidio di una donna, da adescare con un finto annuncio di lavoro e col cui cadavere sostituire quello di Elizabeth, che a tempo debito sarebbe dovuta ricomparire per intascare la sua parte.
Dopo l’incendio nel garage di Joe e il ritrovamento di un corpo femminile carbonizzato, il piano sembra procedere a meraviglia, se non fosse per uno zelante perito assicurativo…
La mediocrità come cifra stilistica
Un noir dall’ambientazione banale di una sonnolenta provincia americana qualsiasi, colmo di personaggi dall’aspetto insignificante rapisce per vividezza ed incisività come pochi.
Se Nulla più di un omicidio fosse un quadro di Edward Hopper, probabilmente sarebbe un dittico composto da Portrait of Orleans e Stanza di New York, perché la scrittura di Thompson sa rappresentare alla perfezione le vite che scivolano in un appiattimento generale in attesa del grande riscatto, grande tema che pervade anche l’opera di Hopper e, più in generale, gran parte della letteratura americana degli anni ’50 dello scorso secolo.
Il protagonista Joe sa di essere in gamba, non un grosso pesce nel mondo degli affari ma sicuramente uno che sa nuotare bene in acque agitate. La sua percezione delle proprie capacità, però, è assolutamente fallace. Strozzato tra l’espansionismo del diretto concorrente d’affari Sal Panzer (che sottraendogli l’attività per costruire una multisala, darebbe corpo al movente per l’omicidio della moglie per riscuotere la polizza), i ricatti del bieco Hap Chance (che sostiene di aver capito come si sia creato l’alibi) e la serrata investigazione di Appleton (che pretende sia fatta l’autopsia sul cadavere carbonizzato), capisce di essere poco più di una balena incagliata in acque basse.
Mentre guidavo verso casa sotto la pioggia, con le budella che si annodavano e si snodavano, pensai a Elizabeth e a quanto era maledettamente ingiusto che io avessi dovuto fare tutto il lavoro sporco in una faccenda che in realtà aveva messo in moto lei. Non ero stato io ad assumere Carol. Non l’avrei mai portata in casa nostra. Forse non ero troppo soddisfatto della vita coniugale, ma non mi era mai passato per la testa di fare qualcosa di proposito. Era stata Elizabeth a coinvolgerla. Sono una delle sue tante stupidaggini in cui io facevo la parte del merlo. (pag. 155)
Man mano, poi, che Appleton gli gira intorno per stringere il cappio della menzogna al collo, l’attesa di una svolta a suo favore diventa una gabbia claustrofobica.
Tanta intraprendenza e prosopopea, si scontra con la propria assoluta inadeguatezza a stare al passo di un piano orchestrato dalle due donne della propria vita, la volitiva e grintosa Elizabeth e la paurosa e frignante Carol.
Devo ammettere che all’inizio della lettura del romanzo mi stavo indispettendo per le lunghe e dettagliate descrizioni del mondo delle sale cinematografiche del dopo Guerra, la loro espansione, la concorrenza spietata nel reperire le giuste bobine, quelle dei film di cassetta che tanti guadagni avrebbero assicurato nel fine settimana, addirittura la spiegazione di alcune tecniche di taglio e montaggio delle pellicole.
Non avevo mai letto Thompson e quello era il mio maldestro primo impatto.
Ma come un’onda lunga prima sembra respinge e poi travolge, così la prima parte di Nulla più di un omicidio si è rivelata propedeutica alla catarsi finale, dove la banalità a cui alludevo prima è rappresentata in tanti modi, esaltata da un finale a sorpresa.
Sollevai la pistola e la puntai. La mano mi tremava; mi afferrai il polso con l’altra mano per immobilizzarla. La chiave cigolò e scattò nella serratura. La maniglia girò. Poi la porta si spalancò, e in quel preciso istante premetti il grilletto. Vi fu una lunga, irregolare esplosione. Poi fu tutto finito. E attraverso il fumo vidi Appleton che mi sorrideva. (pag. 163)
Note della Rossa
Tranquilli, questo non è il finale ma solo il primo finale, quello che sembra sciogliere le tensioni a meno di quattro minuti della fine di ogni film americano d’azione che si rispetti. D’altronde, Thomson è stato un grande sceneggiatore di Hollywood, collaborando anche con Stanley Kubrick in Rapina a mano armata e Orizzonti di gloria. Leggendo Thomson, vi assicuro, c’é solo da imparare.
Incipit
Cercasi donna libera da impegni per impiego generico in residenza fuori città. Età quaranta-quarantacinque anni; divisa taglia 48, ottimo stipendio, orario conveniente, casella postale n. .. “Il numero della casella lo lasco scrivere a lei” dissi alla ragazza dietro il banco. “Devo pur lasciarle qualcosa per guadagnarsi il pane”.
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