Bentrovati al Thriller Café! Oggi parliamo di “Nulla si perde”, un thriller a sfondo sociale di Chloé Mehdi, una giovane autrice francese (classe 1992). Il libro è stato recentemente pubblicato in Italia dalle Edizioni e/o.
Mattia Lorozzi ha undici anni e vive nella banlieu, la periferia di una città non meglio precisata, in Francia. Se esistesse un premio per la famiglia più disfunzionale, quella di Mattia probabilmente se lo aggiudicherebbe. Zé, il suo tutore, ha dei trascorsi in manicomio criminale e una grande passione per la poesia francese, mentre Gabrielle, la sua compagna, è una depressa cronica che trascorre i giorni a fissare lo schermo della televisione e a elaborare il prossimo tentativo di suicidio. Lo stesso Mattia ha alle spalle una storia cupa: suo padre si è impiccato in manicomio, e la madre lo ha abbandonato di lì a poco. Sono esperienze che fanno crescere in fretta, e infatti Mattia ha sviluppato una sua cinica saggezza: “Non ti puoi permettere di frignare, quando senti che il mondo che ti circonda è sull’orlo del baratro, pronto a precipitare al minimo momento di distrazione. Il filo teso sul precipizio…”.
C’è però qualcosa che viene a turbare questo equilibrio già precario: Mattia si accorge di due uomini che lo pedinano quando va a scuola e la loro casa viene misteriosamente messa a soqquadro. Non si tratta di ladri, chi ha forzato la porta cercava qualcosa… Ma cosa?
Intanto, le strade sono piene di una rabbia prossima ad esplodere. Le facciate dei palazzi si tingono di graffiti vermigli che gridano il nome e il volto di Said, un ragazzo ucciso dalla polizia. L’agente che gli ha fracassato il cranio a manganellate è stato scagionato durante il processo e ora si aggira libero nel quartiere di Les Verriéres.
“Nulla si perde” è un noir con molta disperazione e ben poca redenzione. A guidarci nella storia è proprio il piccolo Mattia, un investigatore del tutto atipico, la cui cinica innocenza fa stringere il cuore. Il titolo riassume il nocciolo della sua filosofia rassegnata: “non cambia mai nulla, tutto si ripete senza tregua. Nulla si perde, nulla si crea. Tutto si trasforma e sempre nello stesso modo, e soltanto per un po’.” La sua figura mi ha fatto immediatamente venire in mente un altro investigatore “particolare”: il ragazzo autistico protagonista dell’indimenticabile “Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte” di Mark Haddon. Anche in questo caso, infatti, è proprio il punto di vista del narratore a rendere l’indagine viva e intrigante: nel libro di Haddon, Christopher cerca di scoprire chi ha ucciso il suo cane, e per farlo dovrà affrontare le sue paure e i suoi limiti, mentre nel libro di cui parliamo oggi è la fragilità di un bambino a guidarci in un mondo di adulti particolarmente feroce e privo di speranza.
Leggendo “Nulla si perde” ho pensato a una strana – ma molto efficace – ibridazione tra il romanzo di Roman Gary, “La vita davanti a sé” (1975) e il film di Mathieu Kassovitz, L’odio (1995), con un portentoso Vincent Cassel. Come nel libro di Gary (se non l’avete letto, mi permetto di consigliarlo vivamente, perché non lo dimenticherete), Cloé Mehdi assume il punto di vista di un piccolo orfano, ma lo trapianta in un contesto di guerriglia urbana e di odio sociale, proprio come accade nel film di Kassovitz. Quest’ultimo tema, poi, è ancora di scottante attualità dopo gli scontri in Francia nel mese di dicembre per la legge sulla cosiddetta “sicurezza sociale”. Se volete accompagnare la lettura con una colonna sonora a tema, potete ascoltar l’album “Banlieue triste” degli Hangman’s Chair. Non è il rap o l’hip hop che vi aspettereste, visto il tema, ma un gruppo stoner rock made in Paris con chitarre possenti e una voce da brividi.
Tornando a noi, “Nulla si perde” è un romanzo molto interessante, e non a caso in Francia ha anche collezionato diversi premi della critica.
Personalmente, più che il thriller in sé e lo stile di scrittura piuttosto scarno, mi ha colpito l’abilità della scrittrice nel regalare un punto di vista diverso su una realtà drammatica, estremamente vicina eppure colpevolmente ignorata, rimossa. Il mondo degli ultimi, delle vite stritolate dagli ingranaggi del sistema, costrette a sublimare in odio la loro impotenza.
Tra le pagine, c’è un’immagine estremamente evocativa di questo baratro che separa la realtà dalla sua percezione. Una delle protagoniste del libro partecipa a uno scontro con le forze dell’ordine e, tra le cariche e i lacrimogeni, alza lo sguardo su un cartellone pubblicitario di un profumo:
“Si vedeva una donna bellissima con un grande sorriso, in bianco e nero, e sopra c’era scritto «La vita è bella».
Ho lanciato uno sguardo alle mie spalle, verso gli ultimi temerari che si disperdevano sotto le cariche dei CRS. Correvano in tutte le direzioni per sfuggire ai lacrimogeni e alle botte, poi tornavano sui loro passi armati di pietre che tiravano a casaccio, ma quei proiettili inoffensivi rimbalzavano contro i caschi, le visiere, gli scudi – gli altri sembravano invincibili.
E sull’altro lato la pubblicità alla fermata dell’autobus: «La vita è bella». Era il nome del profumo. Mi sono detta: “Come hanno osato fare una cosa del genere, quegli stronzi di pubblicitari?”. E questa domanda me la faccio ancora oggi. Bisogna essere ciechi per non vedere lo sfasamento tra il nome di quel profumo e la realtà; e quella pubblicità era per strada, a una fermata dell’autobus, proprio dove non puoi non vederla, tutta la miseria del mondo, non è come se passasse alla TV, e te la puoi guardare stando al calduccio nel tuo salotto senza pensare allo schifo che hai intorno […] La vita è bella. Sì, come no. Vieni giù a vedere, verifica un po’ la tua teoria, magari c’è qualcosa che non va”.
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