Gli insospettabili (Sleuth), Joseph L. Mankiewicz, UK 1972
Sinossi: Andrew Wyke, prolifico ed eccentrico scrittore di libri gialli, decide di far pagare cara al rivale la relazione con sua moglie: dichara di essere disposto a farsi derubare purché l’uomo si tiri in disparte. Senonché, al momento del furto, Andrew spara al rivale, ma questi non muore, e qualche giorno dopo si presenta allo scrittore sotto mentite spoglie per vendicarsi.
Se il thriller è diventato, soprattutto grazie alla codificazione hitchcockiana, uno dei generi cinematografici per antonomasia, i “gialli” trasposti al cinema soltanto in rarissimi casi hanno mantenuto le qualità, la dignità narrativa e il grado di suggestione dei modelli letterari originali.
L’Aenigma/Charade è una tipologia del giallo classico in cui si tratta “semplicemente” di capire chi ha fatto cosa (Whodunit), attraverso una serie di colpi di scena, di false piste e di processi di agnizione, che attivano in genere una specie di divertita curiosità intellettuale piuttosto che un sentimento di angoscia e precarietà come invece avviene nel thriller. Le sue varianti più note sono quelle della camera chiusa e del delitto impossibile. L’Aenigma è uno stato d’animo che genera curiosità e ansia per la scoperta del colpevole e per l’esito della storia, ma in genere non attiva un reale cambiamento esistenziale del protagonista.
Un’altra variante significativa riguarda una fattispecie narrativa in cui il protagonista inizia un gioco, una sciarada divertita, quasi per caso e “in punta di piedi”, pensando di poter mantenere la situazione tranquillamente sotto controllo, mentre invece il gioco diventa un gioco al massacro senza esclusione di colpi, con continui ribaltamenti di fortuna tra il ricercatore e l’antagonista. Ne è esempio paradigmatico proprio il capolavoro di Mankiewicz, tratto dalla piéce teatrale di Anthony Shaffer, per l’occasione splendidamente adattata per il cinema; caso più unico che raro di un lungometraggio di finzione che si regge per oltre due ore soltanto sulle robuste spalle di due dei più grandi attori del Novecento (Laurence Olivier vs Michael Caine), aiutati ovviamente dallo stile lineare e impeccabile del regista e dalla conturbante e geniale scenografia claustrofobica di Ken Adam fatta di giochi da tavolo, automi e giocattoli di varia natura.
Gli insospettabili si configura sin da subito come un perfetto e spietato congegno di detection dall’andatura inesorabile. Del resto, il titolo originale del film, Sleuth, rimanda all’attività del detective/ricercatore, colui che indaga e che segue come un segugio le tracce del criminale, portando inesorabilmente alla luce le prove che lo inchioderanno. Un diabolico balletto meccanico di 140 minuti coreografato con sapienza in tre movimenti narrativi perfettamente individuati, senza un’unica nota stonata (perfetta la colonna sonora di John Addison), ma pieno zeppo di trabocchetti e insidie già a partire dai crediti iniziali. I quattro nomi di attori fittizi, oltre a quelli “reali” di Olivier e Caine, che compaiono nei titoli sono, infatti, soltanto il primo degli inganni perpetrati nei nostri confronti. Il messaggio considerato retrospettivamente è chiaro: se è vero che il gioco, come i romanzi gialli, svincola l’uomo dalla pesantezza della vita reale, è altrettanto vero che, per dirla con Roger Callois, l’agon può diventare improvvisamente ilinx, una vertigine incontrollata, l’ebbrezza che si prova quando si è soggetti a forze estranee sulle quali non si può più esercitare alcun controllo finendo per risultare giocati dal gioco, sacrificando ad esso ogni dimensione etica e morale e travalicando i limiti e le regole su cui ogni gioco dovrebbe essere costituito.
Il film si apre programmaticamente con le immagini di un labirinto di siepi, metafora (insieme alla scacchiera) dell’indagine poliziesca e figura emblematica dei generi della detection. Al suo interno Andrew Wyke, rinomato scrittore di gialli dal carattere istrionico e giocoso, più volte vincitore dell’Edgar Allan Poe Award, sta registrando su un dittafono il finale del suo ultimo libro. All’esterno del labirinto un uomo distinto e di bell’aspetto, Milo Tindle, sta cercando la via per raggiungere il suo ospite che lo ha invitato nella sua residenza di campagna per discutere i termini della separazione dalla moglie della quale scopriamo quasi subito che Milo è l’amante. L’inquadratura plongée del labirinto ci dà quasi l’idea di un esperimento entomologico inteso a verificare che cosa succederebbe facendo interagire in uno spazio-tempo circoscritto un gentiluomo inglese passatista e devoto al giallo classico inglese degli anni ‘20, attempato e aristocratico, e l’amante di sua moglie, un parvenu belloccio di origine italiana che nella vita fa il parrucchiere e che, infatti, di libri gialli e, a maggior ragione, di quelli scritti dal rivale in amore, non sa nulla: Milo non riesce a introdursi nel labirinto, marcando non soltanto una differenza sociale ma anche una totale estraneità ai codici identificativi della detection che invece Andrew padroneggia alla perfezione e che utilizzerà nel mettere a punto il sadico gioco per umiliare colui che ha avuto l’ardire di prendersi per amante sua moglie.
L’intero plot del film si svolge nella splendida villa di Andrew. L’uomo vive circondato da carillon, costumi teatrali, puzzle impossibili, antichi giochi di pazienza orientali, scacchi, freccette, ruote della fortuna. L’unica presenza di cui l’uomo non può fare a meno è quella del fedele e allegro lupo di mare Jack Bolina, automa che ride a comando alle sue freddure. Il gioco per lui è vita. La vita stessa è solo un gioco, in fondo. E lui non può che essere il vincitore, superomisticamente convinto che il romanzo giallo, per Andrew innanzitutto una sfida enigmistica e intellettuale con il lettore (il riferimento principale è chiaramente il Philo Vance di S.S. Van Dine, anche lui, come Andrew, insieme aristocratico, narciso ed esteta), sia l’unica “ricreazione congeniale alle menti nobili”; Milo Tindle, il suo rivale, è invece soltanto un parrucchiere, per di più di origine italiana, tanto che il suo vero cognome è Tindolini.
La moglie di Andrew, Margherita, non è al villino e lo scrittore – che con sprezzatura e nonchalance sostiene di consolarsi da anni delle sue infedeltà con una giovane amante scandinava ben più soddisfacente e prestante – propone a Milo di liberarlo definitivamente di lei, in cambio di un bel mucchio di gioielli custoditi nella cassaforte della villa: la sola condizione è che il giovane simuli un furto che consenta ad Andrew di potere poi incassare i soldi dell’assicurazione. Prestandosi al gioco, anche perché, a differenza del rivale, Milo ha effettivamente bisogno di denaro, l’uomo inscena un furto in piena regola, accorgendosi troppo tardi d’esser caduto in un tranello. Andrew finge di scoprirlo con le mani nel sacco e, estratta una pistola, insensibile alle implorazioni disperate dell’uomo, gli spara.
Fine primo atto. A questo punto aspettiamo, come suggeriscono le regole del genere, l’ingresso di qualche altro personaggio; ci sembra strano che un attore del calibro di Michael Caine sia uscito di scena già alla prima mezz’ora del film ma non problematizziamo più di tanto la situazione, sicuri che da quel momento in poi il film si configurerà come un classico “detective inverso”, una storia alla tenente Colombo dove noi spettatori sappiamo già chi è l’assassino e l’investigatore di turno dovrà “semplicemente” cercare di far emergere la verità, appunto come deve fare il segugio che dà il titolo al film.
Lo spettatore ne sa dunque quanto il personaggio di Andrew (massima possibilità di identificazione empatica, completa adesione all’hic et nunc della narrazione, totale incertezza sugli esiti). L’improvvisa irruzione dell’ispettore Doppler non fa che confermare le nostre previsioni. Ma la (apparente) morte del personaggio interpretato da Michael Caine ha destabilizzato tanto lo spettatore quanto Andrew Wyke, che sembra non comprendere il motivo per cui un detective dovrebbe indagare su un omicidio che, a suo dire, non sarebbe mai avvenuto. La suspense cresce progressivamente e spasmodicamente fino a tramutarsi in un colpo di scena quando scopriamo che l’ispettore Doppler è Milo Tindle sotto mentite spoglie, che in un paio di giorni, mosso dal suo desiderio di vendetta per l’umiliazione subita, si è perfettamente impratichito con le regole della detection e ora può combattere alla pari con il rivale.
Nomen est omen. Doppler non è dunque altri che Milo, cui Andrew, soddisfatto d’avere visto l’uomo ai suoi piedi a implorarlo mezzo morto di paura, aveva sparato con un proiettile a salve. Tornato alla villa per ripagare lo scrittore con la sua stessa moneta, Milo annuncia ad Andrew di avere ucciso la sua amante scandinava e gli dà pochi minuti di tempo per trovare, prima che arrivi la polizia, le prove che inchioderanno Andrew e che lui stesso ha provveduto a disseminare nella villa quando interpretava il personaggio dell’ispettore Doppler. Lo scrittore, dopo avere rapidamente elaborato il lutto per la morte dell’amante, accetta entusiasticamente la (nuova) sfida scusandosi con Andrew per avere sottovalutato le sue facoltà intellettuali. Match pari. Si va ai vantaggi in una nuova gara senza esclusione di colpi e con un ulteriore ribaltamento del rapporto carnefice-vittima. Ma quante volte si può ripetere lo stesso gioco prima di farlo diventare una tragica farsa?
“C’è un’unica regola. Mai fare lo stesso gioco per tre volte di fila”.
La suspense in atto nel film di Mankiewicz è legata a doppio mandato al rischio insito in ogni gioco che finisce per venire preso troppo sul serio: il gioco può degenerare, cosa che accade quando esso si allontana progressivamente da quella realtà fittizia che lo caratterizza per invadere pericolosamente il mondo reale. L’agon, da competizione pura fissata dentro binari molto rigidi di codice e di prescrizioni (ed è lo stesso Van Dine, nelle sue famose Venti regole, a ricordarci che la narrativa gialla deve attenersi scrupolosamente a un protocollo inaggirabile), può diventare prima antagonismo emotivo e sociale e poi sconfinare addirittura nella patologia criminale; l’alea, d’altra parte, può andare ben oltre l’innocuo divertimento e diventare la base di una credenza cieca nell’obiettivo che ci si è prefissati di raggiungere fino a trasformarsi in cieca superstizione. La mimicry, ancor più pericolosamente, può passare dalle nobili forme dell’arte teatrale alla psicosi e allo sdoppiamento della personalità. Mentre l’ilinx, lo abbiamo visto, è quella vertigine connaturata al rischio dello spossessamento. La suspense de Gli insospettabili lavora proprio sull’aggiramento continuo di questo limite in cui il gioco cessa di essere attività separata e finisce per contaminarsi indissolubilmente con la vita reale, provocando quella perdita di controllo che, nel gioco come nel film, dovrebbe essere sempre contenuta e sorvegliata dalle convenzioni di genere e dal patto narrativo.
Ma ne Gli insospettabili le regole del gioco (e del giallo) non vengono rispettate.
Ed è anche per questo che ci divertiamo un mondo e senza un attimo di tregua.
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