“Strangolata nel suo appartamento la moglie dell’industriale Fenaroli”
Così titolava Il Messaggero la mattina del 12 settembre 1958, all’indomani del ritrovamento del cadavere di Maria Martirano Fenaroli nella cucina della sua abitazione di via Monaci 21 a Roma. Iniziava così uno dei casi giudiziari più controversi della storia italiana, meglio noto come il caso Fenaroli-Ghiani, dal nome dei due principali protagonisti del processo che tenne con il fiato sospeso per anni l’opinione pubblica, divisa tra innocentisti e colpevolisti.
L’ingegnere e l’elettrotecnico erano accusati di essere il mandante e l’esecutore materiale di un delitto che sarebbe dovuto valere al primo l’incasso di una cospicua polizza assicurativa intestata alla moglie e al secondo una lauta ricompensa per i suoi servigi. Non un delitto d’impeto, quindi, ma un crimine pianificato nei minimi particolari e messo in atto con un gelido perfezionismo da un altro soggetto che noi ora chiameremo, senza ombra di dubbio, un killer. Sia Fenaroli che Ghiani vennero condannati all’ergastolo il 10 giugno del 1961, nonostante la difesa appassionata di due avvocati eccezionali come Carnelutti e Madia, e la condanna venne confermata dalla Cassazione il 27 luglio 1963. L’ingegnere morì in carcere nel 1975, mentre Ghiani – che si era sempre professato innocente – ottenne la grazia nel 1983 dal presidente Pertini, e attualmente vive a Firenze.
La distanza di oltre mezzo secolo da quei fatti non mitiga la sensazione che la verità processuale sia abissalmente lontana dalla verità.
Omicidio a Piazza Bologna rappresenta una pregevole summa delle conoscenze giornalistico-investigative sul caso Fenaroli. Fabio Sanvitale e Armando Palmegiani, infatti, non sono certo i primi ad analizzare quell’Everest di carte processuali ma, come è loro costume, affrontano la disamina forti delle loro rispettive professionalità, di un invidiabile fiuto investigativo, nonché di una tenacia non comune. Il tecnicismo di Palmegiani guida il lettore nell’appartamento di via Monaci fin dalle prime pagine, alla ricerca di minutaglie e piccole incongruenze che, con tecniche e occhi “moderni”, possono risultare molto significative, mentre Sanvitale è abilissimo ad intessere una narrazione vivace e mai appesantita dai dettagli tecnici, utilizzando il già collaudato stile colloquiale, vivido e accattivante al tempo stesso.
Quello che traspare più di ogni altro aspetto, però, è la passione che anima questa coppia investigativa: passione per i dettagli, per i misteri irrisolti, per le pieghe dell’animo criminale, per la verità. Nessuna pista investigativa è stata tralasciata dagli Autori, né alcuno spunto o appiglio interessante, scandagliato anche con l’ausilio di tecniche investigative all’avanguardia, semplicemente futuristiche per il 1958.
Tutta questa passione si è tradotta ancora una volta in un libro intenso, a tratti quasi divertente – quando i due Autori, ad esempio, tratteggiano i fatti di costume e cronaca di quel periodo -, a tratti invece addirittura commovente, come nella pagina della telefonata a Raoul Ghiani che, contattato lo scorso anno” ha risposto loro così: “Guardi, io non ho dimenticato nulla di quello che è successo e se parlo poi sto male per mesi, quindi preferisco non dire niente.”
Numerose e altamente significative, poi, le foto a corredo della loro personalissima indagine, a partire da quella più scioccante e significativa di tutte, la foto del cadavere della Martirano in copertina.
Dopo Un mostro chiamato Girolimoni e Morte a Via Veneto, ancora una volta, quindi, Fabio Sanvitale e Armando Palmegiani hanno lasciato la loro impronta su un fascicolo giudiziario e, come ogni impronta che si rispetti, è unica e inconfondibile.
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- Sanvitale, Fabio (Autore)