Fan di Temperance Brennan, buone notizie per voi: è da poco uscito infatti il nuovo romanzo di Kathy Reichs con protagonista la dottoressa Tempe dal titolo Le ossa non mentono. Il volume segue cronologicamente il recente Le ossa dei perduti (Rizzoli, 2013) e vede la dotteressa convocata repentimente dalla Sezione casi irrisolti del Dipartimento di polizia di Charlotte-Mecklenburg. Due ragazzine di cui era stata denunciata la scomparsa tempo prima sono state ritrovate entrambe morte a migliaia di chilometri di distanza tra loro. I delitti sembrano opera della stessa mano: quella di Anique Pomerleau. Temperance Brennan ha già avuto a che fare con lei (nel settimo volume della serie, Morte di lunedì): anni prima era finita nelle mani di Neal Wesley Catts, maniaco che teneva in prigionia delle giovani ragazze. Quando Temperance e gli agenti erano riusciti a penetrare nel covo di Catts, avevano trovato l’uomo morto e Anique e un’altra giovane nude e incatenate. Ma ben presto avevano scoperto che la ragazza era affetta dalla Sindrome di Stoccolma e aveva partecipato attivamente alle torture, prima di tentare di uccidere la stessa dottoressa Brennan. Adesso sembra che la più letale delle psicopatiche potrebbe essere tornata. E quando un’altra ragazzina scompare nel nulla, Temperance non può che dedicarsi anima e corpo alla missione di fermare Anique; e per farlo deve convincere il suo ex partner Ryan a rientrare dall’esilio volontario in Costa Rica. Indagando fianco a fianco sulla pista di una predatrice assetata di sangue, dovranno stanarla per mettere fine all’inferno.
Le ossa non mentono (Bones Never Lie) è il volume 17 della serie dedicata a Temperance Brennan; non siamo scaramantici, ma non possiamo che sperare lo stesso che il prossimo giunga presto comunque. E sperando che l’attesa sia corta, vi salutiamo con un estratto tratto dal sito dell’editore (pdf scaricabile qui).
Trovai il messaggio il lunedì mattina presto. Honor Barrow mi convocava per una riunione fuori programma.
Ne avrei fatto volentieri a meno, con i germi del raffreddore che si rimboccavano le maniche e dopo un weekend a base di decongestionanti e tè al limone con miele. Pertanto, invece di finire il mio rapporto su un motociclista in avanzato stato di decomposizione, mi unii ai milioni di altri automobilisti che arrancavano verso il centro città all’ora di punta.
Alle 7.45 parcheggiavo sul retro del Law Enforcement Center. L’aria era fresca e odorava di foglie asciugate al sole. O così presumevo: il mio naso era talmente tappato che non avrebbe colto la differenza tra un tulipano e un bidone delle immondizie.
Nel 2012 i democratici avevano tenuto a Charlotte la loro quadriennale convention. A decine di migliaia erano accorsi per festeggiare o protestare, e per nominare un candidato. La città aveva speso qualcosa come cinquanta milioni di dollari in misure di sicurezza e, di conseguenza, il piano terra del lec, un tempo un open space, somigliava al ponte di comando dell’Enterprise: barriera circolare in legno, vetri antiproiettile, teleschermi attraverso i quali veniva monitorato ogni centimetro dell’edificio.
Dopo aver firmato il registro, infilai il mio badge nel lettore e salii al secondo piano.
Barrow passò davanti all’ascensore che si fermava ronzando nell’istante in cui le porte si aprivano. Dietro di lui, visibili oltre l’ingresso, frecce su fondo verde indicavano le sezioni dei Crimini contro la proprietà, a sinistra, e dei Crimini contro la persona, a destra. Sopra le frecce, campeggiava il nido di vespe che è simbolo del Dipartimento di polizia di Charlotte-Mecklenburg.
«Grazie per essere venuta.» Barrow quasi non rallentò il passo.
«Nessun problema.» A parte i tamburi nelle mie orecchie e il fuoco in gola.Lo seguii oltre la soglia e girammo entrambi a destra.
I detective affollavano il corridoio in tutte e due le direzioni, per lo più in maniche di camicia e cravatta, uno in pantaloni di tela e polo blu con l’emblema del Dipartimento. Tutti avevano il caffè in mano e artiglieria assortita addosso.
Barrow scomparve in una stanza sulla sinistra, contrassegnata da un secondo cartello verde con la scritta sezione 2220: reati violenti Omicidi e aggressioni a mano armata.
Io proseguii dritto, oltre tre stanze per gli interrogatori. Dalla più vicina, una voce baritonale sbraitava la sua indignazione in termini alquanto ostili.
Dieci metri più in là, entrai in un vano denominato 2101: omicidi sezione casi irrisolti.
Un tavolo grigio e sei sedie ricoprivano quasi tutta la metratura. Il resto era occupato da una fotocopiatrice, uno schedario, lavagne bianche cancellabili e pannelli di sughero alle pareti.
In fondo alla stanza, un basso divisorio lasciava intravedere una scrivania con sopra le solite cose: telefono, tazza, pianta agonizzante, vaschette portadocumenti strapiene in entrata e in uscita. Una finestra proiettava rettangoli di luce sul sottomano.
Non un’anima in vista.
Lanciai un’occhiata all’orologio a parete. Le 7.58.
Solo io ero arrivata puntuale.
Con la testa che mi martellava, e lievemente seccata, mi lasciai cadere su una sedia, posando a terra la tracolla.
Sul tavolo c’erano un laptop, una scatola di cartone e una vaschetta di plastica. I due contenitori recavano un numero sul coperchio e quello che contrassegnava la vaschetta mi era familiare.
090430070901. Il dossier riportava la data 30 aprile 2009. Un’unica telefonata, giunta alle 7.09
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