Aristèides Albanese, detto Il Greco, torna a Trieste dopo diciassette anni passati in carcere: è stato condannato per omicidio dalle false dichiarazioni di dodici testimoni. Vuole aprire un ristorante insieme all’ex compagno di cella, il pakistano Aahrash. Ma prima vuole vendicarsi sfruttando la sua creatività di cuoco. Proteo Laurenti durante il processo ha commesso un errore e adesso deve fare i conti con la propria coscienza.
Una nuova indagine del commissario salernitano di nascita e triestino d’adozione.
Veit Heinichen ancora una volta costruisce un poliziesco denso e asciutto. Siamo lontani anni luce dai thriller contemporanei, tutti azione e colpi di scena. Qui tutto si gioca, come sempre nei suoi libri, in un’ atmosfera poetica e rarefatta. Un romanzo corale, in cui i personaggi si muovono sullo sfondo della città di Umberto Saba, che “ha una scontrosa grazia” e “in ogni parte è viva”, sempre più terra di confine e sempre più protagonista. Ma la Trieste che l’Autore descrive è anche quella moderna, piena di corruzione e malaffare. Il politico locale, creatore di rapporti obliqui e trasversali, senza limiti ideologici, intreccia rapporti con maggioranza e opposizione. Tutti, prima o poi, devono passare dalle forche caudine dei favori che lui elargisce.
Dal suo passato oscuro emergono aspetti che arrivano a sfiorare anche il commissario Laurenti. Che certo era in buona fede, anni prima, quando non ha approfondito la vicenda di Albanese, costretto anche dai poteri forti. Ne viene fuori un ritratto del protagonista niente affatto scontato in un noir, slegato dai soliti stereotipi dell’eroe duro e inflessibile. Laurenti si sente in colpa, e questo lo renderà molto più empatico verso Aristèides. Anche i metodi di indagini sono lontani dal thriller. Niente violenza, interrogatori, inseguimenti. Ma molte riflessioni intimistiche e poetiche. Sul tempo che scorre, sul passato che non torna, e sulle possibilità di ripartire a ricostruire un futuro anche dopo tanto dolore subito.
Questo testo in particolare attira anche per la sua costruzione. Quasi tutta la storia è vista dalla prospettiva del Greco. Raramente un noir mette da parte il protagonista. Al commissario spetta quasi il compito di spettatore, pieno però di quella pietà tanto cara a Maigret, che ci porta ad un finale commosso e lirico.
Un romanzo corale, fatto di tanti piccoli personaggi, che pur apparendo in poche scene, rendono l’affresco ancora più incisivo. Sono loro ad accompagnarci in questo noir pacato e riflessivo, come una musica di sottofondo. Dalla famiglia del commissario ai suoi colleghi di lavoro, dagli amici di Aristeides, passando per una carrellata di criminalità quasi tutta fatta di colletti bianchi.
Ampio spazio viene dedicato alla passione culinaria del protagonista. Il collegamento tra l’arte investigativa e la passione culinaria non è certo una novità nella tradizione gialla. Basti pensare al Montalbano di Camilleri, e alle ampie zone dedicate alle abitudini sul cibo di Salvo.
Il nostro Autore però fa un salto di qualità. Qui i siparietti Camilleriani servono a dare una struttura al romanzo. Aristèides sceglie un metodo per vendicarsi più vicino a una commedia che al dramma: prepara una cena avvelenata ad ognuna delle sue vittime. Ed il fatto che la maggior parte dei tentativi fallisce, rafforza l’atmosfera mista di dramma e commedia. Il cattivo iniziale si rivela meno malvagio del previsto.
Il libro è scritto con uno stile piano ed elegante, sempre preciso, mai roboante. Pieno di dialoghi freschi, a volte avvincenti, altre intimistici, sempre densi di umorismo, non può che invogliare i lettori a procurarsi gli altri volumi della serie. Mi taccio.
Recensione di Raffaele Izzo
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