Renato De Rosa ha fatto uscire da poco dall’editore Carbonio il suo ultimo romanzo: “Osvaldo, l’algoritmo di Dio”. A dispetto del titolo, il registro dell’autore continua a essere leggero, come lo sono state le sue opere precedenti. In questo caso, però, la storia porta con sé anche una dimensione di mistero e di intrigo, che ricorda per certi versi la tipica costruzione dei libri gialli.
Forse anche in virtù dei suoi studi in matematica, De Rosa affronta uno dei temi caldi del momento: il rapporto tra gli sviluppi dell’informatica, che promettono costruzioni sempre più complesse ed elaborate, in grado di risolvere problemi estremamente difficili e lo spazio che questi sviluppi riservano agli esseri umani. L’autore decide di ambientare la propria storia in un laboratorio universitario italiano, all’interno di un gruppo di ricerca nel quale si studiano proprio questi argomenti. E, tutto sommato, si può dire che lo spaccato che l’autore offre di questo mondo è una delle caratteristiche più riuscite della sua opera.
Il protagonista è un giovane ricercatore, Dario, un po’ vessato dal barone universitario di turno (De Rosa non risparmia in sottofondo una critica piuttosto esplicita e ben riuscita all’organizzazione universitaria italiana) e alle prese con i classici problemi dei suoi coetanei: scelte di vita per il futuro, rapporto con la famiglia di origine, amori e avventure, passioni extra-lavorative. Attorno a lui, un gruppo di personaggi secondari: colleghi di lavoro, compagni di vita e familiari, che aiutano a metterne in risalto le peripezie. Insieme ai suoi colleghi di laboratorio, Dario si troverà coinvolto, suo malgrado, in una serie di vicende rocambolesche, che generano una trama intricata, che solo alla fine permetterà al lettore di trovare una soluzione ai misteri del racconto. Fanno da completamento autobiografico alla scenografia, la scelta di De Rosa di ambientare il romanzo nella sua Toscana e di assegnare un ruolo non marginale ai giochi di scacchi e bridge, che sono una nota passione dello scrittore.
Nonostante l’intreccio sia ben congegnato e quindi il mistero che riguarda la storia crei sempre più suspense nel lettore fino all’epilogo finale, il primo tentativo di De Rosa di cimentarsi con l’atmosfera da thriller è riuscito solo parzialmente. Lo stile divertente e quasi canzonatorio, che ha costruito fino a oggi la carriera dell’autore, rappresenta ancora il tratto dominante del racconto, che più che una classica costruzione giallistica, finisce per essere una riuscita raccolta di gag umoristiche. Sia chiaro, non c’è nulla di male a scrivere un libro leggero, e che si fa leggere molto volentieri, sull’universo giovanile odierno, ma viene da chiedersi se a questo punto ci fosse realmente bisogno della trama un po’ mistery che si snoda nel corso del racconto. I personaggi infatti hanno poco a che vedere con i classici personaggi da libro giallo, ricchi della loro profondità psicologica e delle ambientazioni sociali che li caratterizzano, ma sono piuttosto attori di sapidi e divertentissimi dialoghi quasi battutistici, di sapore spesso prettamente toscano, molto ben riusciti e a tratti veramente gustosi.
Il tema portante del romanzo, la dualità uomo-macchina, che De Rosa ha scelto come sfondo fin dal titolo, rischia di rimanere alla fine un po’ incompiuto. Né la conclusione dell’intrigo, né le peripezie dei diversi personaggi riescono ad affrontarlo veramente. La conclusione più saggia che ci rimane dalla lettura De Rosa sul rapporto tra esseri umani e algoritmi può forse quindi essere quella di sdrammatizzare i timori che aleggiano intorno a quest’argomento, pensando che le vicende della vita delle persone riescono ancora a darci speranza nel futuro.
Recensione di Giuliano Muzio.
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