“La storia non si ripete, ma fa rima”, scriveva Mark Twain. A inizio secolo, la talassocrazia che regge i destini del mondo si trova insidiata, nel suo primato, da una nazione sfidante, che fa della propria capacità industriale la sua principale forza. Curioso come questo scenario descriva tanto la situazione tra Inghilterra e Germania a inizio Novecento quanto, forse, anche il rapporto, oggi, tra Stati Uniti e Cina.
È questa l’intuizione di Ken Follett, autore gallese tra i più letti al mondo, che ha firmato due dei libri più venduti nella storia (si tratta de “I pilastri della terra” e “La cruna dell’ago”) che, potremmo dire, incardina su questo parallelo lo svolgimento del suo “Per niente al mondo”, edito in Italia da Mondadori.
Possiamo considerare questo nuovo romanzo anche come un quarto capitolo della “The Century Trilogy” (costituita da “La caduta dei giganti”, “L’inverno del mondo” e “I giorni dell’eternità”), che avevano ripercorso, attraverso un romanzo, gli eventi più drammatici dello scorso secolo. E se “I giorni dell’eternità” si era arrestato alle soglie del presente, “Per niente al mondo” getta lo sguardo in avanti, verso il futuro, ma ricordando il passato, e in particolare il drammatico flusso di eventi che condusse, in un certo senso malgrado la volontà degli attori principali, alla Grande Guerra.
Il primo teatro dello scontro, quello in cui si accese la scintilla della prima guerra mondiale fu una zona caratterizzata da grande instabilità: i Balcani. Gavrilo Princip, nazionalista serbo, assassinò l’Arciduca Francesco Ferdinando d’Austria e la moglie Sofia, a Sarajevo. L’impero austro-ungarico doveva reagire.
La tensione tra Austria-Ungheria e Jugoslavia però, indusse la Russia a schierarsi a fianco degli slavi, la Germania a fianco degli austriaci, dato il sistema di alleanze. Scalata su questo piano, di natura (all’epoca) globale, la tensione non poteva lasciare indifferenti potenze come Francia e, soprattutto, Inghilterra. E così, come una biglia che rotola lungo un piano inclinato, il mondo si avviò alla tragedia.
Potrebbe succedere anche domani? Follett immagina l’Africa e la Corea del Nord come nuovi teatri di scontro, e Stati Uniti e Cina nei panni che furono vestiti da Inghilterra e Germania. La narrazione fa riflettere ma, come sempre nel caso dell’autore gallese, sa anche appassionare.
Non si tratta certo, come spesso osservato anche dai critici di Follett, di un manuale di storia o, in questo caso, di fantapolitica. Ciò che non smette di stupire però è la capacità dell’autore di raccontare non forse la Storia, ma una storia, che nella storia si immerge, attraverso personaggi ricchi e vivi, che sanno accompagnarci lungo i corridoi della Casa Bianca così come in mezzo al deserto, in un viaggio che può significare morte o speranza di una nuova vita.
E così voltiamo una pagina, e poi un’altra ancora. Il ritmo accelera, mentre schermaglie politiche e minuetti diplomatici lasciano spazio a reazioni sempre più rabbiose, sempre più difficili da controllare. Nella fase centrale e conclusiva, torna in mente l’atmosfera tratteggiata nel film “Thirteen Days”, diretto da Roger Donaldson e dedicato alla crisi dei missili di Cuba, nel 1962: uno dei momenti in cui il mondo fu più vicino al rischio di un nuovo conflitto mondiale.
Ricordando proprio tale pellicola, il lettore si ritrova a sperare che, ancora una volta, possa essere profetica la frase attribuita a Anatolij Dobrynin, allora ambasciatore sovietico negli Stati Uniti, che rivolgendosi a Bob Kennedy, disse: «Lei è un uomo in gamba, e lo è anche suo fratello. La prego di credere che ci sono persone in gamba anche da noi. Speriamo che gli sforzi di tutti noi siano sufficienti a fermare il potente meccanismo che si è messo in moto».
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