Avete caldo adesso a Milano? Non lamentatevi. Nel 2045 la temperatura sarà molto più sgradevole e non solo. Sarete invasi dalle zanzare, anche perché i Navigli saranno stati scoperchiati. Vi muoverete in masse ondeggianti e agglutinate di gente senza nerbo né obiettivi e, se vi sarà andata bene, disporrete di un permesso d’ingresso, altrimenti vi fermeranno prima di arrivare in città, magari facendovi stazionare al campo di Pioltello, dove la parola profugo è un complimento.
Anelerete a trovare ospitalità nelle chiese, ultimo estremo avamposto. Dovrete esibire la vostra identità su tablet, il vostro prossimo biglietto da visita. Mangerete vermi fritti alle food-bikes per strada. Sarete costantemente controllati dai droni segnalatori. E se vi verranno strani pensieri di evasione, avrete a disposizione solo i divertimenti fluo del Notturno di Linate, un tempo aeroporto, ora sottospecie dei quartieri loschi di Bangkok.
Però potrebbe andarvi meglio, e quindi vivreste nel parco urbano dello Scalo farini, quartiere un po’ parvenu di arricchiti o financo al Torracchione Velasca, come Renato Valsecchi, imprenditore illuminato che frequenta e finanzia movimenti e fondazioni a favore degli ultimi, ma non disdegna piaceri estremi come una cena a base di fugu, il velenosissimo pesce palla da cui solo pochi eletti sanno trarre un sashimi commestibile.
Lui no, evidentemente, tanto che ci lascia la pelle.
Oppure è stato ucciso.
Questo è il quesito sottoposto al commissario capo Alberto de Santa, appena rientrato da un confino (peraltro graditissimo) a Pieve di Cadore, che si muoverà tra la Chiesa dell’Apocalisse e le sue strane badesse, tra gli amici del passato – come Salim Barthez, oggi indiscusso leader carismatico erede di quel Gulliver Sacco trucidato nel corso di passati disordini – e altri personaggi in bilico tra un’esistenza attuale (più o meno dis-agiata) e un imminente “qualcosa” di cui alcuni sono in preparazione ed altri nell’incoscienza del non prevederlo.
Questo romanzo è stato definito distopico, ma al suo autore l’attributo va stretto. E ha ragione, perché Michele ha fatto di più che immaginare un futuro dove gli aspetti negativi del nostro presente saranno ingigantiti. Si è sicuramente lasciato indulgere in oroscopi geopolitici della porta accanto, come lo scoppio di rivolte razziste contro i cinesi in Paolo Sarpi, i sudamericani tra viale Padova e Cimiano o i magrebini in Maciachini, e ha giustamente rimbrottato come dalle epidemie del 2020/21 e dalla guerra regionale in Ucraina non noi abbiamo tratto alcunché di propositivo (“vivevamo in una bolla, sapevamo di correre verso il baratro e facevamo finta di niente”, scrive) ma ha soprattutto fatto rivivere quella parte del vivere associati che ritiene morta, rassegnata, indifferente: la lotta, la critica, la reazione.
Quando è venuto a trovarci a Risolto Giallo, Michele Turazzi si è dichiarato contentissimo di venir ospitato da una trasmissione che predilige e studia il genere, perché il suo Prima della Rivolta è anzitutto questo, un giallo: c’è un omicidio, una detection, un investigatore. Che poi lo sfondo sia anomalo, come appena anticipato, è questione di fondale. Che sia riuscito a ricreare atmosfere a cavallo tra i galoppanti e plumbei anni ’70 e le allucinate visioni di un futuro così punitivo nei confronti dell’essere umano, è questione di abilità narrativa.
Ma questo romanzo non è davvero distopico, se con questo termine intendiamo l’immaginario futuro totalmente negativo, perché in Prima della rivolta c’è molto meno individualismo che nel nostro oggi, c’è tutto un aspetto sociale in ebollizione, che dà conto delle diversificazioni ma vuole riconquistare gli spazi e spartirli sottraendoli alla gentrificazione per strati sociali che li ha appiattiti. Tra le pagine di Michele ci sono cortei, manifestazioni, volantinaggi, riunioni carbonare incastonate in un avvincente noir d’anticipazione, ci sono metodi di indagine classici (interrogatori, pedinamenti) in un contesto futuristico, ci sono sentimenti fortissimi di appartenenza e di amicizia in un mondo dove l’affettività è relegata.
Si chiama speculative fiction, quello che scrive Michele Turazzi, ed è uno dei pochissimi. “Parole riempite di elio e rivestite di piombo”. Da non perdere. Se volete scendere un po’ dalla vs cadrega e camminare avanti. Per tornare a veder immagini che “assomiglino a facce e non ad ammassi di pixel”.
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