
La pandemia di COVID-19, che purtroppo ancora domina la cronaca, già entra anche a far parte della storia. Si tratta, lo percepiamo chiaramente, di un evento che definisce un prima e un dopo: nella socialità, nelle abitudini, nello stile di vita. E quindi, molto più in piccolo, sembra dirci Petros Markaris, anche nel romanzo giallo.
Da questo spunto prende il via il racconto di “Quarantena”, edito da La Nave di Teseo, ultima fatica dello scrittore e sceneggiatore armeno naturalizzato greco, autore della popolare serie di romanzi che hanno per protagonista il commissario Kostas Charitos, da molti ribattezzato “il fratello greco di Maigret” o “il Montalbano di Atene”.
Ad accomunare Charitos a Maigret e a Montalbano, ce lo ricordano già le prime pagine di “Quarantena”, è anche una certa avversione per la tecnologia, che le circostanze però lo costringono, almeno per questa volta, a superare.
Il commissario è infatti costretto a cominciare questa indagine in quarantena, e ad affidarsi a computer e webcam per raccogliere informazioni dai propri collaboratori, definire la linea delle indagini da portare avanti, organizzare interrogatori.
La pandemia è il filo che lega le diverse vicende narrate, e ci conduce tra le vie di Atene, a respirare l’aria della città che è stata culla della civiltà. Anche questo, forse, accomuna Markaris a Simenon e Camilleri: la capacità di restituire un’atmosfera che va al di là dell’indagine, al di là della vicenda poliziesca, e costituisce un elemento più generale, potremmo dire un tratto culturale.
L’Atene del commissario Charitos dunque, come la Parigi di Simenon o la provincia siciliana, identificata come la località immaginaria Vigata del commissario Montalbano. Addentrandoci sempre di più nel racconto però, ci rendiamo conto che, in particolare in “Quarantena”, Markaris vuole caratterizzare la narrazione anche, tra le righe, con una disamina tanto appassionata quanto spietata della situazione greca, al di là della pandemia.
Atene non è funestata soltanto, come il resto del mondo, dal COVID. Un altro male, più antico, si aggira tra le vie periferiche, infesta i quartieri più poveri: la miseria. Molti dei personaggi sono il ritratto di chi, lo si intuisce, è stato vittima della crisi economica e ancora, faticosamente, sta cercando di ricostruire una propria dignità. Oppure, addirittura, ha già rinunciato.
Lo stile dell’autore come del protagonista, asciutto, senza indulgenze né fronzoli, rende se possibile ancor più vibrante e più viva la descrizione, sapientemente temperata da qualche passaggio di tagliente ironia.
Nei momenti in cui l’azione lascia più spazio alla riflessione, tornano in mente le pagine di “Qualcosa capiterà, vedrai”, raccolta di racconti di un altro grande autore greco, Christos Oikonomou, datata 2010, quando la crisi economica globale stava deflagrando, dopo il crac della Lehman Brothers.
E colpisce, a oltre dieci anni di distanza, come il tono della narrazione non sia cambiato di molto e anzi si sia fatto, se possibile, ancor più disilluso. Eppure, in Oikonomou così come in Markaris, ancora, anche dopo più di dieci anni così difficili, emerge dal testo una sottile ma incrollabile vena di umanità.
Come una candela che tenacemente e sovvertendo ogni previsione resiste al vento, una qualche forma di speranza sopravvive, malgrado tutto, e illumina il testo. Ci ricorda che anche le circostanze difficili che portano all’incontro di diverse debolezze possono essere interpretate come un’occasione di cercare il modo di essere, insieme, forti abbastanza da immaginare un futuro migliore.
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Articolo protocollato da Damiano Verda
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