Rosario Palazzolo, del quale abbiamo già recensito posivamente Concetto al buio, oggi sotto la nostra lente d’ingrandimento, con il suo nuovo romanzo: Cattiverìa. Lo recensiamo per voi.
Tre anni ho aspettato il nuovo romanzo di Rosario Palazzolo. Tre lunghi anni. Finalmente l’ho letto e poi riletto. La rilettura è d’obbligo se davvero si vuole cogliere, assaporare, capire e stupirsi della follia narrativa di Cattiverìa. Una follia perfetta, ottimamente dosata, universale, analitica, concupiscente, divina, e al contempo grezza, patetica. Scontata.
Tutto parte dal disagio dei protagonisti, oramai privi di nomi. Privi d’identità se non di ruolo o genere: la madre, il figlio, inconsci della loro depersonalizzazione e così riplasmati dall’occulto demiurgo contemporaneo; dal più anonimo dei nomi, il più spersonalizzato in assoluto, dalle antiche radici: il signor “Media”. Oramai uno e trino. Indefinito, astratto, condizionante. Assoluto. E tutto in Cattiverìa passa dal suo volano che filtra i desideri, che li permea o manovra con fili invisibili in geometriche costruzioni obbligate ad una realtà illusoria; tragedia inconscia e immane dell’apparire. Vita falsa. Manipolata dall’oggetto del desiderio pubblicitario, sciacquata dal candore di una telenovela patinata di centinaia di anni, fatta aderire nell’inconscio insieme ai cartoni animati con cui si è svezzati, al sottofondo musicale esistenziale a base di sapori rassicuranti, e ai programmi nazionalpopolari di prima serata. Ecco, allora, il trionfo del demiurgo! Portobello, l’uomo tigre, i due protagonisti della telenovela Sentieri, Gino Paoli e pure Padre Pio. Eccoli tutti creati e asserviti. Ecco il trionfo, ossessivo, anancastico, presente in ogni dove e in ogni quando. Ecco il trionfo dei Media. Vincitori sui gusti e sulle coscienze. Sulle personalità. Sull’uomo stesso. Vincitori sulla madre e sul figlio di Cattiverià. Vincitori biechi che non lasciano nulla. Mancanti di verità e menzogna. Mancanti di conforto. E in Cattiverìa non c’è conforto. Non c’è neanche l’ombra di un conforto perché assente del tutto fino a spingersi oltre. E Rosario Palazzolo, oggi, va oltre la misera speranza di una fede illogica miscelando in un impasto perfetto, padre e Dio, e dio padre di dio e di santi supereroi e di santi cartoni animati. Di San Francesco Superman o di Padre Pio Tigre (la spada di Zorro nelle mani di Padre Pio è l’emblema della sua Media sacralità).
Cattìveria è il delirio del sogno senza speranza alla ricerca dell’opportunità di successo. Un desiderio smodato di successo senza speranza. Una misera umanità incanalata in una vita che non da scampo. Svuotata di tutto e Cattiverìa stessa è un’opera svuotata di tutto. Dall’intreccio, praticamente nullo, dallo scorrere del tempo che non c’è, dall’interazione fra i personaggi del tutto inesistente come le loro psicologie, dai luoghi rigorosamente chiusi e indefiniti. Da azioni assenti ad eccezione di una, la potente, la principe, che ritorna, viva e cancellata al contempo, ma senza spazio in un istante che fu. Che è. Che è certezza e che non è. Al suo posto: Solitudine. E Silenzio. Silenzio in mezzo a una bufera di parole, tese a crepare il muro della tragica deflagrazione che dilagherà per tornare nuovamente al silenzio dell’incapacità di comunicare.
Non ci sono oggetti in Cattiverià. Non ci sono persone. Non ci sono dialoghi. C’è un’esplosione detonante la cui miccia lunga e lenta di polvere nera, divora il trauma inconfessabile e simbolico di una verità dissepolta e poi nuovamente sepolta per la quiete del rimorso di una madre e per la libera quiete di un figlio, per poi rientrare e tutto ricomporsi nel definito; perfetto nel suo contorno della difficoltà di essere. Di esistere. Di apparire. Cattiverìa è tragedia dell’apparire.
Un discorso a parte merita la scrittura di Rosario Palazzolo che io amo molto e da sempre. Non è scrittura per ragionieri questa, ma per gran contabili, perché alla fine, nonostante la gran carestia dei punti, l’incredibile tempesta di virgole, le pagine intere prive di qualsiasi punteggiatura, le sgrammaticature sempre volute, le nutrite espressioni dialettali, le storpiature delle parole, ecco che alla fine i conti, tutti i conti, tornano sempre. Anche quelli più che complessi, tornano sempre.
A chi è aperto o predisposto a ricevere qualcosa di nuovo, Palazzolo dona incredibili pagine scritte senza punteggiatura, ma dense del ritmo veloce del grande narratore che toglie il respiro, oppure regala tempeste di virgole che si trasformano in una musicalità di linguaggio originale e unico, ma Palazzolo, e tengo a dirlo, non inventa alcuna lingua. Questo è il suo personalissimo modo di scrivere, ed è solo il frutto di una profonda e meticolosa ricerca stilistica che come base ha l’amore per la parola. Una parola succhiata, mangiata, fagocitata e poi sputata, riplasmata e donata a nuova vita, dentro un concetto di libertà espressiva a confronto con la realtà quotidiana. Una parola sommata ad altre parole, mai messe a caso, sempre pesate che si trasformano in un motore che una volta azionato va fino in fondo adattandosi allo spessore culturale e ambientale dei personaggi, mischiandosi con loro, fino a creare eterogenei individui di uno spaccato che rappresenta una Sicilia popolare. Una parola parlata, quella di Palazzolo. Intelligente e colta. Diretta e inimitabile. Una parlata che incanta, seduce, che sprizza vita e vivacità, che anima, incalza, scandisce, completa e scanna ogni personaggio uscito dalla mente geniale di quel pazzo avanguardista di Rosario Palazzolo.
In conclusione Cattiverìa è un libro bellissimo e ancor più bello se riletto.
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