Su Thriller Café recensiamo oggi Salto d’ottava, romanzo di Antonio Paolacci edito lo scorso anno da Perdisa. Senza dubbi, un’ottima lettura. Se volete sapere perché, eccovi serviti…
Titolo: Salto d’ottava
Autore: Antonio Paolacci
Editore: Perdisa Pop
Anno: 2010
Trama:
È la parodia di un ragazzo. Fantoccio deforme, sporco di se stesso, adagiato nella polvere bagnata, ma soprattutto immobile, e questo sì che è strano: Chiunque sia, non muoverà più un dito, mai più, ha finito di svegliarsi la mattina, ha finito di allacciarsi le scarpe. E siccome gli somiglia – stessa taglia, stesso modo di vestire – allora ecco cosa fa la paura più del sangue e delle altre schifezze: l’identità del morto.
Un uomo e un ragazzo. Ventiquattro ore per entrambi. Un cadavere di adolescente in una fabbrica abbandonata.
L’uomo è un produttore cinematografico preda di una strana forma di smarrimento. È un uomo che ha atteso, che attenderà fino all’ultimo istante.
Il ragazzo è un sedicenne affascinato dalla cultura dello skateboard. Quando s’imbatterà nel cadavere di un suo coetaneo, sarà l’inizio delle domande. Omicidio? Incidente? E scoprirlo, importa davvero? Sullo sfondo, una sessualità vissuta di nascosto: incontri anonimi, trasgressione e prostituzione s’incrociano a un’eloquente poetica delle persone qualunque.
Un Matteo. Adolescente, benestante, apatico, e solo.
Un Matteo. Adulto, benestante, apatico e solo.
Un unico Met che per 24 ore rivive dentro i due Matteo, con la forza di un ricordo incancellabile, che ha per sempre segnato il destino del Matteo ragazzo e del Matteo uomo.
Tutto nasce al “Rottame”, un vecchio capannone industriale in rovina che avvolge nelle sue spire l’omologato anticonformista Met (Matteo), sedicenne, Skateboader, figlio di papà e della sua ricca civiltà del benessere. Che sa esagerare bene nella sua protesta esteriore contro una società che gli consente di vivere senza problemi e avendo tutto.
Matteo. Met. Spinello e Skate ieri, oggi peercing e tatuaggio. Jeans a zampa di leone, occhiali da vista rotondi e barba incolta ieri, oggi jeans col culo di fuori, occhiali da killer e capello rigorosamente rasato, o colorato o gellato. Omologato! Met. Matteo. Come uno di oggi.
Al rottame, in mezzo al lerciume, all’odore di acre dell’abbandono, immerso “nel vento che s’infila in quelle zanne di finestre rotte”, Met scopre un: “ fantoccio deforme, sporco di se stesso, adagiato nella polvere bagnata, ma soprattutto immobile”. Met al rottame, scopre come si è senza vita. Il fantoccio gli somiglia, ha la sua stessa età e perfino i vestiti simili ai suoi, allora scopre quello che potrebbe diventare. Ha paura. Fugge. Si rintana nella sua anticonformista cameretta di una casa agiata e piange, forse no, non piange. Non sa cosa fare, o meglio, il suo IO lo sa benissimo, ma preferisce fare l’unica cosa che gli hanno insegnato: NIENTE, e NIENTE è l’unica cosa che ha imparato bene da mamma e papà, dalla sua società e dal suo tempo, perché di sicuro NIENTE è l’unica cosa sicura, e lui si omologa volentieri obbedendo ai dettami invisibili della sua sterile coscienza con un’alzata di spalle. Solo il travaglio di una notte, una notte soltanto dove muore Met, e poi l’indomani, tutto va al suo posto fino al giorno in cui Met ricompare a Matteo il giorno del suo compleanno con una torta con “non so quante candeline” ci sono. Fatto sta che Matteo adesso è un uomo, non ha più lo skate, ma una bella macchina che prima di montare accarezza il cofano. Non ha più ai piedi le mitiche All Star, oppure i jeans sgualciti di una nota casa americana, ma semplicemente “una camicia da duecentonovantanove euro, calzoni e giacca che superano i mille” e con le scarpe “si porta addosso il budget mensile di una famiglia”. Certo, ha anche un matrimonio naufragato con una figlia che vede poco e niente, un lavoro prestigioso di produttore cinematografico che lo arricchisce e che non gli piace. Certo Matteo ha anche altre cose che mezzo mondo gli invidia, ma a lui interessano quel tanto, perché da dopo quel dannato giorno al rottame è divenuto un nichilista sarcastico e solo, che cerca l’amore mercenario che paga per un sesso inutile, che paga per parlare e sentire parlare.
La colpa del risveglio di Met è tutta del regista Campestri, che ha proposto a “Matteo Qualcosa”di girare un video alternativo, un omologato video documentary/convenzional al rottame. A Matteo quel video importa. Non sappiamo perché gli importa così tanto, ma gli importa veramente. C’è però un ostacolo, il “fagotto”. Deve rimuoverlo per non ostacolare le riprese. E lo fa. Deve fare i conti con la sua memoria. I conti con se stesso e con quella “cosuccia irreversibile” che gli riecheggia nella memoria. E li fa.
Salto d’ottava è un piccolo libro di un centinaio di pagine. Una gemma. Un capolavoro stilistico. Un gran saggio sulla crisi d’identità dell’uomo moderno che vive solo nel consumismo, nell’indifferenza, nella solitudine, nell’apatia, nell’individualismo, senza ambizioni, valori o prospettive di crescita. È un romanzo denuncia, feroce e critico verso le debolezze dell’uomo contemporaneo, raccontato come una metafora dove, e spesso, siamo costretti ad identificarci.
La narrazione a prima lettura è complessa, ma rileggendola si capisce appieno che non poteva essere scritta in altro modo se non questo. Un linguaggio unico, pregnante, veloce e asciutto, con salti di tempo di vent’anni e passa, nell’arco delle ventiquatt’ore; con salti di stile dalla prima persona narrante alla terza. Con riflessioni di gran pregio: “La memoria è immagine…. La memoria è montaggio….La memoria è collegamento….La memoria è conforto…. La memoria è collisione…. La memoria è salto….”
Salto d’ottava di Antonio Paolacci, è un gran bel libro.
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