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Introduciamo oggi agli avventori del Thriller Café Franz Konig e la sua serie di romanzi thriller con protagonista Doc. Roversi. Partiamo dal volume più recente, “Sciolto come un cono gelato al sole“, pubblicato da poche settimane. Come per tutte le nostre segnalazioni, iniziamo con vedere brevemente la trama.

Quando la Signora Landini Pacinotti, molto vecchia, molto malata ed enormemente ricca, muore, un magistrato zelante decide di aprire un’inchiesta e condurre le indagini è l’ispettrice Angelina Carta. Mentre in paese colpevolisti e innocentisti dibattono su cosa sia accaduto, il Doc Roversi collabora alle indagini, benché le giudichi prive di senso. In quei giorni sono arrivati in sala operatoria due pazienti nuovi, per fratture postraumatiche. Antonio, portiere dell’ospedale in pensione, e Michela, infermiera sul territorio. Il primo ha una lesione all’omero, con piccole cellule impazzite, caotiche e anarchiche, nate per errore in un rene malato, e da lì partite per il breve e maledetto viaggio. Lesione infausta e tragica. La seconda invece ha una frattura diafisaria di femore trattabile con chiodo endomidollare con successo garantito. I due si conoscono da anni e cominciano a frequentarsi. Michela si occuperà della malattia di Antonio. Lei che, da sempre, con una dedizione familiare, si occupa del fine vita di chi lo chiede. Ma la domanda è: Michela ha ucciso la signora Landini Pacinotti o è solo un angelo biondo e dolce che accompagna gli ultimi respiri?

Questa in sintesi la storia che Konig narra in “Sciolto come un cono gelato al sole“; per approfondire maggiormente, segue un estratto del libro.

Estratto

La sala operatoria cominciò regolarmente, Barbara era in ritardo come al solito, ma giustificato perché aveva i due bambini da accompagnare a scuola. Bruno aveva preparato il letto per la traumatologia allestito per un arto superiore, con il piano d’appoggio completo e il tavolino radiotrasparente per il braccio destro. Il letto era una acquisizione recente, moderno, motorizzato, snodato in mille segmenti, dotato di un libretto di istruzioni scritto solo in tedesco. Bruno era un infermiere generoso e forte, ma non conosceva il tedesco e, per allestire i vari bracci del letto, smadonnava sommessamente. Letizia, anestesista di mezza età stressata e già scontenta alle otto di mattina aveva preparato il materiale per l’intubazione. Antonio fu spostato dal letto di degenza al letto chirurgico da quattro infermiere forzute. Nella saletta di anestesia Letizia sparò in vena le sua fiala fino a vedere l’arresto respiratorio dell’ex portiere, poi infilò il laringoscopio in bocca e con una manovra rapidissima il tubo tracheale. La sua infermiera procedette con i vari collegamenti alla pompa di anestesia e Letizia se ne andò scontenta in cucinetta a prendere il primo caffè. Il Paziente fu fatto entrare col suo letto in sala operatoria, il letto fu bloccato e Roversi era pronto, vestito di verde come un ramarro, a spennellare l’arto superiore destro col batuffolo intinto nella tintura di clorexidina. Misero i vari teli sterili preconfezionati, poi il Doc provò a manipolare la zona di frattura. Lo faceva abitualmente, per sentire con i polpastrelli il punto dove l’osso si era frammentato. Una specie di manovra scaramantica, un gesto istintivo per sentire l’osso rotto. Ma non sentì quasi niente. L’omero si fletteva dove la frattura aveva interrotto la sua continuità, ma non scricchiolava. Brutto segno. L’osso non parlava. Riprovò un paio di volte, ma non sentì la risposta scricchiolante dei frammenti. Rinunciò. Mise un laccio emostatico alla radice dell’arto, con la punta del bisturi fece un taglietto di 2 -3 cm in corrispondenza della frattura e col dito provò a entrare separando i ventri muscolari. Non trovò l’osso, ma un tessuto biancastro lardaceo, elastico e non ben identificabile rispetto ai tessuti sani attorno. Ne prelevò alcuni frammenti da diverse posizioni e li consegnò alla ferrista per inviarli in Anatomia Patologica. Poi lasciò Barbara a suturare la piccola ferita e si cambiò la divisa mentre faceva preparare il carrello della fissazione esterna.

La fissazione esterna era una tecnica di seconda scelta, ma aveva i suoi pregi. Si risolveva con quattro forellini per altrettante fiches, due morsetti e un corpo corto. La frattura oltretutto non era scomposta, bastava irrigidire il sistema e medicarlo per tornare in reparto. Praticamente la frattura era come prima, però stabile, il frammento di materiale era stato spedito ai laboratori, il trattamento definitivo si sarebbe deciso in base al referto. Il vecchio portiere fu accompagnato nella saletta del risveglio e Roversi si fermò in cucina a guardare gli altri che prendevano il caffè.

– Cosa hai prelevato? Chiese Barbara.

– Materiale vicino alla frattura. Lardaceo, senza confini netti. Non mi piace.

– E adesso metti un chiodo G&K?

– Penso di sì.

– Oggi è la giornata dei dipendenti ospedalieri.

– Perché? La prossima lavora per l’ospedale?

– Tu non la conosci. Michela è infermiera per i servizi esterni, anche ostetrica. Va in giro con la sua macchina attrezzata  per l’assistenza extraospedaliera. Quando ho avuto i miei bambini è venuta diverse volte, a me era venuta la paranoia del  cordone ombelicale. È stata bravissima. Trattala bene.

– Ma va… anche lei legata all’ospedale… questo paesotto è troppo piccolo. Io non conosco nessuno  e tutti si conoscono fra di loro. Quindi quella bionda lì fuori è una tua amica?

– Beh… sì… è amica di tante persone. Le vogliono tutti bene. È un tipo un po’ così… chiacchierona, allegra, spontanea. Ma in paese tutti la conoscono. Prima girava con la macchina dell’USL con una collega, Santina, che poi è tornata a lavorare a casa sua, in Sardegna. Qualche anno fa. E adesso Michela fa tutto da sola. Bravissima. Penso che la sua assenza dal servizio sarà sentita… ma tu le metti un bel chiodone, e lei riprende a correre. Vero?

– Un bel chiodone. Ha cominciato l’anestesia Letizia?

– Stanno girando la ragazza. Vuole la spinale.

– Ah… che gusto… brava… vado a salutarla.

Il Doc si alzò e si diresse verso la zona sterile. Nella sala Bruno stava allestendo il letto chirurgico per l’intervento di inchiodamento endomidollare.

– Non ci capisco niente con questo affare! Porcaboia… i due bracci che adesso sono piegati sotto il piano di plastica vanno lasciati così? Si girano dopo? Poi la frattura è a destra… mettiamo un reggipoplite? E il piede? Lo appoggiamo in una calza legata alla trazione, no? Ma non c’era un modello in italiano? Magari con qualche figura…

– Lascia il piano lungo fino ai piedi, per ora, poi lo muoviamo insieme quando c’è la ragazza sopra.

– Sì… va bene. Mette una trazione ai condili?

– Già… per forza… ha delle masse muscolari allenate e a destra c’è un ematoma sulla frattura che è tutto in tensione… dovremo tirare parecchio. Lascia il letto così, lo sistemiamo dopo.

– Sì… preparo i reggibraccia.

Roversi entrò in preanestesia. La ragazza era adagiata sul suo letto piegata sul fianco destro e si lamentava sottovoce. Letizia, l’anestesista le stava piantando un ago nella schiena con lo stile di uno spadaccino del ‘700.

– Eh… Michela mia…se facevi l’anestesia generale eri già sul letto e non sentivi niente. Adesso piega la schiena e non muoverti.

Roversi andò dall’altra parte del letto, prese la mano della ragazza e sentì stringere forte la sua. Il viso era coperto da un lenzuolo verde, come tutto il resto del corpo, solo la mano, con numerosi tubini incerottati, usciva dai teli, e stringeva forte quella del Doc.

– È quasi finito. Dovresti sentire piano piano un caldino lungo la gamba destra, e il dolore che se ne va. Ha già tolto l’ago. Rimani ferma, così l’anestesia si concentra nella gamba destra. Come va il male?

– Sta passando. Dopo ti faccio vedere le mutandine con il bottone. Mia mamma le ha comperate tutte colorate…

– Ok. Rimani così ancora qualche minuto, poi ti portiamo di là.

Roversi ritrasse la mano e andò nella sesta sala, quella che non era mai stata completata per mancanza di fondi, e veniva usata per fumare. Si accese il mozzicone di sigaro che aveva nella tasca della divisa e salutò Giovanna che spegneva la sigaretta e si dirigeva in sala per preparare il carrello.

– Chiodo G&K? Che misure prendo?

– Pare un 39. È un femore grosso, penso che dovremo alesare fino al 13 o 14. 

– Viti di stabilizzazione?

– No, direi di no.

– Che trapano vuole?

– Non importa. Quello che trovi.

Giovanna se ne andò meditando ragionamenti sullo strumentario. Roversi finì quello che rimaneva del sigaro e lo spense sotto l’acqua del lavandino, poi aprì la finestra, e si chiuse la porta dietro le spalle uscendo. Bruno era pronto a sollevare la ragazza.

– Vado, Doc? Lei prende le gambe.

Si abbassò e si caricò la ragazza sulle braccia come se fosse una piuma, Roversi prese le gambe e l’infermiera dell’anestesia tutti i flaconi con l’asta reggi-flebo. Fecero i pochi metri che separavano dal letto operatorio e l’appoggiarono. Il Doc rimase a sostenere le gambe, l’infermiera appoggiò il braccio sul tavolino anestesiologico, poi inserì l’archetto con cui separava il territorio dell’anestesia da quello chirurgico e coprì la ragazza con una pesante imbottita verde. A quel punto la ragazza non vedeva nulla di quello che succedeva dietro il telo verde. Bruno fece cenno a Roversi di attendere ordini.

– Mettiamo una trazione transcheletrica ai condili.

Giovanna aveva già preparato il trapano sterile con montato un filo d’acciaio da 2 mm. Roversi lo sparò rapidamente sopra al ginocchio, la ragazza non disse niente, l’anestesia funzionava. Misero la staffa per agganciare il filo e si prepararono per la trazione.

– Adesso bisogna spostare il piano d’appoggio facendolo scivolare verso gli anestesisti. Tu sollevi la ragazza e l’anestesista sfila il piano per una trentina di cm.

La manovra fu fatta con precisione sino che la ragazza appoggiò sul piano solo fino al sacro, Roversi si mise le gambe sulle spalle.

– Ok. Adesso apri le aste del letto più che puoi. La gamba destra la tengo io per ora. La sinistra la appoggi sul reggipoplite.

Bruno guardò le mutandine colorate della ragazza e fece un gesto interrogativo come per chiedere l’autorizzazione per toglierle. Roversi annuì. Le mutandine volarono via e Roversi si trovò davanti un ciuffo biondo arruffato. Girò la testa per non guardare.

– Dai Bruno… che ‘ste gambe sono pesanti. Apri le aste del letto, che la sistemiamo.

Bruno aprì l’asta sinistra del letto chirurgico, sistemò l’appoggio della gamba e il reggipoplite, poi prese la gamba della ragazza dalle mani del Doc e la portò tutta a sinistra divaricandola. Il ciuffo biondo si aprì. Roversi chiuse gli occhi. Non aveva mai capito perché le donne in genere odiavano quella cosa rosa lucida e profonda che compariva inesorabilmente divaricando le gambe e che per lui era un mistero prezioso conservato in un piccolo e morbido nido di pelo. Per un attimo il brusio della sala s’era fermato in rispetto per l’espressione attonita di Roversi, poi Bruno incastrò il perno d’acciaio avvolto di cotone e posizionato esattamente al centro del pube con lo scopo di fermare la ragazza con una controtrazione, e il fiore lucido e rosa scomparve. Il brusio riprese indifferente e Roversi appoggiò la gamba destra con il femore fratturato sul suo reggipoplite e agganciò la trazione alla vite senza fine in fondo all’asta. Barbara si era già lavata e si stava vestendo con il camice piombato sotto alla veste sterile. Roversi andò ai lavandini per il rito del lavaggio mani, ma prima si sciacquò la faccia per allontanare quell’immagine antica e sconvolgente, nota come sublime o terrificante, ma pur sempre intima e occulta nella specie sapiens. Appena fu vestito, dal carrello di Giovanna prese un telino verde sterile e lo lanciò a coprire il ciuffo e il perno d’acciaio. Da sotto i lenzuoli verdi si sentì una voce leggera.

– Ehi… cosa succede? Come mai tutto questo silenzio? Ci sono dei problemi?

Rispose Bruno, con tono paterno dall’alto della sua mole.

– Niente bambina. Stiamo sistemando lo strumentario. Cominciamo.

Roversi palpò il sottocute sul fianco e reperì la sporgenza del trocantere, nel piccolo quadratino di pelle lasciato libero dai teli. Fece un taglio di 3 cm. con un bisturi panciuto e  con il dito si fece spazio in profondità, sezionò la fascia lata e impostò due uncini per la Dottoressa. Poi cominciò a perforare a mano con la punta curva nella posizione retrotrocanterica. Fece entrare l’amplificatore di brillanza e scattò un’immagine di conferma del punto di partenza. Poi infilò il filo guida nel canale midollare seguendo il suo avanzamento con piccoli scatti radiologici. Arrivato alla frattura dovette fermarsi, i due frammenti ossei erano scostati e disassati. Fece aumentare la trazione, fece alcune manovre manuali, ma i due frammenti non si allinearono. Aumentò ancora la trazione sotto lo sguardo ansioso di Bruno, ma non ci fu allineamento. In sala s’era creato un clima di partecipazione e anche Bruno guardava nel monitor dell’amplificatore facendo il tifo per il filo guida che avanzava con piccoli colpi di martello e non riusciva a centrare il moncone distale. Cominciarono a piovere i consigli.

– Spingi più in basso, così, più in abduzione… no, non così, più addotto….

Durò parecchio, come in una gara di fioretto in cui l’attaccante sferrasse infiniti affondi ma l’altro li schivasse facilmente, con un’abilità di spadaccino di antica esperienza. Roversi si rese conto che poteva andare avanti ore con questo  errore continuo. Si fece dare un alesatore e preparò il canale midollare del frammento prossimale fino a sentire il rumore duro del contatto con la corticale rigida. Poi inserì un chiodo di un millimetro più sottile e lo fece scendere fino alla frattura. A quel punto, manovrando il pezzo di chiodo sporgente dalla coscia poteva dirigere con precisione il frammento prossimale, tanto da far uscire il filo guida con la direzione esatta a infilare il frammento distale. Ci fu un sospiro di sollievo nella sala, Roversi estrasse il chiodo di prova e finì l’alesaggio. Riuscì a mettere un chiodo da 12 mm. e 39 cm. di lunghezza come previsto.  Allentò la trazione e fece alcune manovre per far compattare i due frammenti fino a vedere con l’amplificatore che la frattura era quasi scomparsa.  La Dottoressa suturò la piccola ferita e Roversi si tolse la veste verde. Sollevò la paratia che copriva la ragazza. Lei aveva una espressione felice, per niente ansiosa, coccolata dalle infermiere dell’anestesista.

– Tutto bene? Avete finito? Come era il mio osso?

– Osso bellissimo, chiodo bello grosso, tutto a posto.

– E le mutandine di mia mamma? Erano quelle giuste?

– Perfette. Adesso rilassati, fra dieci minuti sei di nuovo sul letto della tua camera. Ci vediamo dopo.

Uscendo dalla sala fece cenno a Bruno di rimettere le mutandine che erano finite nel cestello della roba da inviare all’inceneritore. Andò in sala sesta e si accese un nuovo mozzicone di sigaro. La piccola finestrella nel cemento armato lasciava vedere un tratto di campagna ancora spoglia, ma l’erba nel prato cominciava a mostrare qualche chiazza verde come piccoli preludi di primavera. Entrò Barbara.

– Mi togli il grembiule di piombo? Bruno l’ha legato di dietro e non riesco a sciogliere il nodo…

– Girati.

Bruno doveva essersi divertito a stringere il nodo delle stringhe del grembiule, Roversi dovette prendere un paio di pinzette per sciogliere il groviglio.

– Ma cosa ti è successo quando Bruno ha aperto le gambe di Michela?

– Niente, perché?

– Avevi una faccia…

– Non avevo niente.

– Lo dico a Michela, quando si sveglia. Le dico che, quando Bruno le ha tolto le mutande tu l’hai guardata come se fosse un miracolo! Che tutta la sala si è zittita.

– Non provarci.

– Beh… vabbè che lei è bionda, ma guarda che le donne sono tutte così.

– Immagino. Ho dato l’esame di Anatomia.

– Già… e poi basta. Hai bisogno di qualche lezione di ripetizione.

– No. Lascia perdere. Che ore sono?

– Le 12 circa. Non abbiamo più niente da fare?

– Vai in Pronto Soccorso a vedere se possiamo dare una mano. Io faccio un salto in Anatomia Patologica.

Barbara se ne andò sculettando come per schernire Roversi e lui si sedette dando un ultimo tiro al mezzo sigaro prima di spegnerlo nel piattino delle cicche di tutta la sala operatoria. Poi si tolse la veste verde e si diresse verso lo studio di Silvestrini, nelle profondità dell’Anatomia Patologica.

– Ciao Silvestro. Ti ho mandato un pezzetto di roba da analizzare. È già arrivato?

– Il Doc Roversi! Il bisturi più veloce del west! Che onore! Cosa posso offrirti? Il caffè non ti piace. Il Porto… ma ormai si va a pranzo…

– Niente, grazie. Mi accendo un toscano. Hai visto il reperto?

– Dovrebbe essere nel carrello di mezzogiorno. È dietro la porta. Vediamo… sala operatoria ortopedia… eccolo.

Estrasse dal contenitore una provetta con alcuni frammenti di materiale biancastro che galleggiavano in una soluzione trasparente.

– Mi dici qualcosa?

– Poca roba. Da dove viene?

– Una rottura patologica d’omero. Attorno alla frattura c’era quella roba lì.

– Mah. Non ha un bell’aspetto. Lo devo fissare, colorare, catalogare…però sembra molto roba oncologica. Il Paziente ha altre patologie?

– Dice di no. Sai chi è? È Antonio, il vecchio portiere che è andato in pensione pochi mesi fa. Ci sono rimasto malissimo.

– Immagino. Poi ti farò sapere cosa mi dice l’istologico. Intanto fai una tac per l’osso total body, una ecografia addome, una visita prostatica, TAC torace, tutti gli esami del sangue… vediamo se viene fuori qualcosa. Dopo l’istologico completo sarò più preciso.

– Quanto ci metti?

– Una decina di giorni. Vabbè… è vero che stamattina hai operato una infermiera dei servizi esterni? Michela?

– Sì, una frattura di femore. Ho messo un chiodo endomidollare. Dovrebbe essere un successo.

– Bello il tuo mestiere. Da me, di successi, ne capitano pochi. Trattami bene la ragazza, è una grande persona.

– La conosci bene?

– Sì… sua madre faceva lo stesso mestiere, infermiera domiciliare. È una tradizione di famiglia. Qui in paese quasi tutti hanno avuto bisogno di loro. Sono molto benvolute.

– La tratto bene. Promesso. Anzi. Adesso la vado a trovare. Appena hai notizie di Antonio chiamami.

– Ok. Ti aspetto con un porto d’annata. Ciao Doc.

Roversi fece il percorso di ritorno verso il reparto domandandosi se l’architetto che aveva messo mano al progetto di ristrutturazione del vecchio ospedale avesse avuto problemi di vertigini e di disorientamento. Nulla era lineare. Per passare dalla Anatomia Patologica al reparto di degenza dovette prendere due ascensori e una rampa di scale, più infiniti corridoi. La camera della ragazza era aperta, la porta spalancata, l’interno pienamente illuminato. Roversi entrò. Una donna di mezza età sorridente salutò e uscì chiudendosi la porta alle spalle. Michela era semiseduta e pareva riposarsi dopo una passeggiata.

– Mia mamma… è una donna d’una volta, timida, di campagna. Poi un giorno te la presento bene. Ma è già tutto finito?  Tutto qui?  Pareva un macello, quando me ne hai parlato…

– Il femore è a posto. Adesso tu stai bene perché c’è l’anestesia. Fra un poco passa e ti farà male. Riesci a muovere le dita del piede?

– No… è tutto addormentato.

– Hai fatto la pipì?

– No… non ancora.

– Prova a passare con un dito sulla pelle del torace e dimmi dove incomincia a essere insensibile.

La ragazza fece scivolare la mano sotto la maglietta e provò a tastarsi delicatamente, poi si fermò appena sopra l’ombelico.

– Ecco… qui diventa insensibile, ma di sopra sento bene. Dici che dura ancora molto?

– Mah… un’ora o due. Appena senti la pancia prova a fare la pipì. Chiama le infermiere.

– C’è mia mamma qui fuori, è bravissima.

– Ok. Ci vediamo domani.

La ragazza rispose con un sorriso, poi gli prese la mano e la strinse come per dire “Complimenti Doc”, Roversi fece un cenno di saluto e uscì.

Quella sera Angelina non era prevista, aveva avvertito che doveva studiare, il Doc si preparò una spaghettata piccante, un bicchiere di vino rosso e le pillole per dormire.

Il giorno successivo, dopo aver finito il turno di visite ambulatoriali, passò al piano delle degenze a salutare i due operati. Antonio stava bene, era visibilmente sorpreso dalla ferraglia che sporgeva dal suo braccio, ma non aveva perso il buon umore suo solito.

– Buongiorno Doc. Ma quanto ferro mi hai messo!

– Titanio, Antonio. Costa un pacco di soldi quell’impianto.

– Ah… potrei fuggire e rivenderlo. Allora tutto bene in sala?

– In sala sì, ma il lavoro non è finito. Non sappiamo il perché di quella frattura. Dobbiamo fare altri accertamenti, probabilmente quei ferri sono solo provvisori.

– Ah… altri accertamenti. Ho capito. Quindi tu dici che l’ho finalmente incontrata. La mia dolce signora… che peccato, avevo appena iniziato un lungo periodo di ferie. Roba brutta?

– Non esagerare Antonio. Dolce signora… roba brutta… non lo so. Giuro! Analisi in corso. Dobbiamo fare delle cose, un sacco di altri esami. Poi ti diremo il nome.

– Giusto… beh, poi non ho fretta. Mia moglie non c’è più da cinque anni, mio figlio fa l’ingegnere in Svizzera ed è pieno di soldi. Non devo più niente a nessuno. Ci starebbe un brindisi.

– Ci sto. Non stasera, che, se la caposala lo viene a sapere, ci sgrida. Comunque ci penso io. Hai male?

– No. Non devo muovermi tanto, ma non ho male. Ci rivediamo?

– Certo. Molto presto. Porto tutto io. Ciao Antonio.

Nella camera successiva Michela era alle prese con la fisioterapista che la stava mettendo in piedi.

– Beh… non eri tu che correvi tutti i giorni?

– Sembra che la gamba non mi tenga su…

– Figuriamoci. Un chiodo d’acciaio con un calibro di dodici millimetri tiene su anche un elefante. Devi appoggiare il peso proprio sulla gamba rotta, non su quell’altra.

– La fai facile…fa male!

– Immagino. Ma una come te non ha paura di niente, no?

L’espressione  della ragazza stava virando dal depresso al disperato, e per un attimo, all’odio verso Roversi. Raddrizzò la schiena, impostò il sedere in dietro, irrigidì i quadricipiti e si appoggiò di peso al deambulatore, ma riuscì a fare due passi.  Roversi sorrise.

– Non devi dimostrare niente a nessuno. Solo camminare. Ci vogliono alcuni giorni e per un paio di mesi ti farà male. Ne riparliamo domani. Hai degli impegni lunedì sera?

Michela ebbe un attimo di disorientamento e non rispose.

– Nel caso tu sia libera, sei invitata  a un aperitivo con salatini nella camera vicina.

– Da Antonio?

– Sì. Porto tutto io. Fatti carina…

Lei fece un gestaccio con la lingua e lui uscì.

Chi è Franz Konig

Franz Konig è uno pseudonimo; l’identità dell’autore non è conosciuta. Questo è però quanto racconta del suo personaggio, Doc. Roversi.

Conosco il dottor Roversi, lo conosco bene da quando è nato.

È un medico, lavora in un ospedale di provincia, è specializzato in ortopedia, il suo lavoro è riparare le ossa e altri tessuti feriti, lavora con il sangue. Il sangue non gli è mai piaciuto, ci si è abituato. Dice che il sangue ha un suo odore, che finisce per piacerti, come un vecchio vino rosso.

Lavora nell’ospedale di un paese vicino a Modena, la città celebre per i motori della Ferrari e il vino rosso frizzante che lui detesta.

Roversi non ha un buon carattere. È prevalentemente depresso e preferisce definirsi malinconico, ma lo dice solo per non deprimersi ancora di più. Ha una lunga esperienza di psicoanalisi e per anni si è aspettato questo epiteto, depressivo, ma non aver mai sentito questa parola non ha fatto altro che renderlo più malinconico.

Si fa chiamare Doc, non l’ha scelto lui, è diventato il suo nome di servizio. Pare che derivi da un personaggio del selvaggio West, Doc Holliday, un pistolero della fine del XIX secolo che, almeno nei film, preferiva morire in una sparatoria piuttosto che di tubercolosi. Doc Holliday era in realtà un dentista. Roversi ha una fervida immaginazione.

Roversi è un solitario. Si vede come una pecora, che si muove con il gregge ma fuori dal gregge, osservando le altre pecore dalla cima della collina mentre aspetta il predatore, sapendo bene che il predatore sceglierà lui e non il gregge. Roversi si sbagliava. Ha anche un certo delirio di onnipotenza.

Roversi ama il sapore, la bellezza, il silenzio, il femminile. Lo fa da timido, perché la timidezza è il suo orgoglio, il suo marchio di fabbrica. E pensa che tutto ciò che desidera sia proibito o velenoso. Guarda le donne con lussuria, ama il Rinascimento, il peperoncino, la sambuca. Vuole essere desiderato dalle donne, dalla sambuca e dal peperoncino, e se ne vergogna.

Roversi non ha paura della morte in sé; la considera l’inevitabile peggior complicazione che un essere vivente subisce dopo la nascita. Fisiologica. Ha paura della morte come evento, come fatto. Ha paura del dolore, dell’affanno respiratorio, della paura del morente. Per questo abusa di analgesici, anestetici, sedativi. Ha paura di non dormire, anche se ogni volta che si addormenta si sveglia con incubi seguiti da un pianto strozzato. Nel corso degli anni, è diventato dipendente dal sonno.

Roversi ha una storia personale ordinaria. Famiglia borghese benestante, cattolica praticante. Studi, laurea senza lode, matrimonio con la prima donna di cui si è innamorato. Dopo vent’anni e una figlia grande, la separazione, gravata da sensi di colpa, ma ancora profondamente affettuosa e protettiva, e lui non ce la fa più.

Roversi si definisce un uomo infedele a Dio, alla patria e alla famiglia. In realtà, è buono come il pane. Soprattutto, è colpevole di fantasia, di cui abusa quotidianamente.

Angelina Carta. Poliziotta di provincia, è l’esatto opposto, concreta, pragmatica, schietta, sembra strano che possano lavorare insieme. Invece, ottengono grandi risultati. Probabilmente si compensano a vicenda.

Conosco bene Roversi, da quando è nato.

https://www.franzkonigscrittore.com/tema/

Per saperne di più, trovate maggiori informazioni sul sito di Franz Konig.

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