Capita talvolta di leggere libri che, per linguaggio, forza espressiva, intensità di contenuto, si stampano nella memoria: e nel tempo si continua a cercare fra gli scaffali della libreria, cercandone il seguito, fino a che diventano un ricordo un po’ sbiadito seppellito sotto ettari di carta stampata.
Ventitre anni dopo I Mastini della guerra, arriva in libreria Sole Verde di Kent Anderson, che riprende il filo della narrazione dove l’aveva lasciata, e quella potenza letteraria del precedente romanzo si propone con intatta forza.
Sole verde non è un thriller classico, non si affida a una trama con delitto, indagine e svelamento del colpevole: c’è sì una storia legata a un ragazzino – Weegee – e a una donna che diventano una sorta di famiglia per il protagonista Hanson , poliziotto bianco messo a pattugliare le strade del ghetto nero di Portland, e alle conseguenze di un fatto di sangue al quale assiste Weegee. Ma è piuttosto il lungo racconto di una vita da sbirro tra spacciatori di livello, piccoli criminali e storie di ordinaria violenza quotidiana.
“La maggior parte delle sue giornate erano notti – fari e lampioni – e ombre”.
La storia è tutta riassunta qui: eppure, in questa sorta di non-trama, c’è un ritmo costante, una sensazione di tragedia imminente che mette Sole verde sicuramente tra i migliori romanzi noir americani pubblicati negli ultimi tempi, giustamente acclamato dalla critica e premiato sia negli USA che in Francia.
Gli elementi di riuscita di questo romanzo davvero complesso, di alta qualità letteraria, sono davvero molti: per semplicità si potrebbero ricondurre a tre fattori essenziali ovvero qualità della scrittura, protagonista e capacità di analisi della realtà. Ma andiamo con ordine.
Anderson ha fatto tesoro dell’eredità lasciata dai grandi scrittori americani: nella sua prosa si possono trovare gli echi di Chandler, McBain, Ellroy sul fronte della scrittura noir, ma si percepisce la conoscenza degli autori classici e della beat generation. Con questo background Anderson elabora un suo personalissimo stile, asciutto ma profondamente evocativo, con una capacità di pesare e dosare le parole che gli permette di seminare nel romanzo scene che paiono quasi sospese nel tempo (la scena in cui Henson interviene per constatare la morte di un’anziana e il saccheggio delle sue povere cose è una scena magistrale), e la traduzione attenta riesce a mantenere questo equilibrio stilistico.
A fare strada attraverso questa scrittura è il protagonista. Henson è un poliziotto “di sinistra”, colto, che preferisce il dialogo al manganello. E’ anche un veterano del Vietnam, con un probabile PTSD (disturbo da stress postraumatico), che combatte con l’alcool un desiderio di violenza e di morte endemico che – come soldato – riusciva a esprimere. E’ un personaggio davvero ben riuscito, ricco di sfumature e contraddizioni: uomo profondamente disincantato, ma allo stesso tempo alla ricerca ogni possibile traccia di bellezza o di umanità negli altri, evita la violenza più che può, ma ne desidera la scarica di adrenalina che ne deriva, è lo sguardo critico del lettore, Anderson ambienta il romanzo negli anni 80 per parlare dell’attualità, e obiettivamente tra l’epoca dell’agente arancio e quella del presidente arancio non sembrano essere passati tre decenni: la violenza e il razzismo della polizia prevalentemente bianca nei confronti della comunità afroamericana è un tema tuttora dolente negli Stati Uniti – sicuramente non aiutato da un linguaggio politico divisivo – e nel racconto del ghetto di Portland Anderson racconta le periferie di molte città e di molti ghetti (non necessariamente afro americani), tra povertà, criminalità organizzata e regole sociali proprie.
Racconta anche dei veterani di guerra, tema sicuramente più intimo e privato che attinge alla personale esperienza di Anderson, veterano, poliziotto e docente universitario.
Si stima che dal 1776 (anno della fondazione degli USA) siano solo 21 quelli in cui gli States non sono stati coinvolti in scenari di guerra al di fuori dei loro confini (l’ultima guerra combattuta su suolo americano è la guerra di indipendenza): comunque la si pensi sull’interventismo americano è comunque innegabile che la retorica militare sia un elemento presente nella cultura americana (a favore o contro, ma comunque presente). I veterani rappresentano la cattiva coscienza in patria di questa cultura: l’altra faccia della retorica eroica sono le ferite, i traumi psicologici, le dipendenze, l’incapacità di un ritorno alla vita civile già ampiamente raccontati in capolavori come Apocalipse now, o Il cacciatore. Qualcosa di cui si parla con un certo disagio, ed Henson è uno di quegli uomini che hanno combattuto (e francamente poco importa se per scelta o per obbligo), che si trova da solo a combattere con questi fantasmi, e questo è l’aspetto più intimo – ma non meno politico – del romanzo.
Sole verde è un’anomalia, è un’opera fuori dagli schemi, sicuramente complessa: Anderson ha aspettato 23 anni per pubblicare questo suo terzo romanzo, ma ha prodotto innegabilmente uno spaccato veritiero sull’America di oggi e sulla vita di un poliziotto nel segno della migliore crime fiction.
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