In una Vancouver gentrificata ancora rimangono angoli di strada oscuri, locali malfamati e miseri sottoscala. In uno di questi vive, nascosta e a scrocco, e lavora, come e quando può, Nora Watts. È un’eroina particolare Nora. Veste malissimo, mangia cibo spazzatura, con l’alcool non ha problemi ma un rapporto fisso e complicato. È un disastro, assolutamente credibile e davvero poco glamour.
Secondo la mia lunga esperienza in questo campo, credetemi, è sempre meglio vomitare all’aperto piuttosto che in un bagno pubblico. Non è piacevole aggrapparsi a una tazza sporca utilizzata da chissà chi. Inoltre, in strada non si corre il rischio che un altro cliente bussi alla porta e che l’addetto alle
pulizie ti guardi storto per il lavoro extra che gli hai procurato. La pioggia laverà via il grosso, per il resto questo vicolo puzzolente non sarà peggiore di prima.
Come il protagonista di Blue Ruin (2013), Nora vive ai margini della società del benessere, in un Canada la cui economia è esplosa ma non per tutti. Si nasconde da qualcosa di non definito ma che poi, quindici anni dopo, arriva, costringendola a uscire da un guscio –glaciale- di sopravvivenza quotidiana e, per nulla poeticamente, diventare ciò che è. Sembra stia aspettando Nora, forse ha aspettato quindici anni. Non una donna di mezza età con vestiti bucati, non solo. Per ritrovare Bonnie, la sua unica figlia che fu costretta a dare in adozione, Nora si ritroverà ad affrontare multinazionali minerarie e società di vigilanza private che sembrano aver sostituito la polizia e che sono diventate i guardiani spietati dei nuovi ricchissimi. In un intreccio che si svolge non sempre in maniera davvero originale la protagonista Nora rimane un momento creativo felice ed evolve di capitolo in capitolo. Come tutti gli eroi e le eroine del thriller ha delle capacità particolari che l’indagine e i pericoli porteranno in evidenza. La sua capacità di sembrare sciatta e inoffensiva, quella di riconoscere le menzogne degli altri, un certo incosciente coraggio nel corpo a corpo fanno di questa madre investigatrice un’abile guerriera metropolitana. I fallimenti che amici e famiglia le imputano spariscono mentre Nora si addentra sempre più in un ginepraio pericolosissimo dalla città alle foreste canadesi adesso luogo di villeggiatura e ritiro dei miliardari che stanno rifondando il paese intero. E che nell’ombra macchinano.
Le persone si prendono più di quanto sono disposte a dare: è la natura bestiale dell’uomo. Quest’isola viene continuamente saccheggiata fin da quando arrivarono le prime navi dall’Europa. Insieme all’eredità culturale, alla lingua e all’innocenza dei bambini, si accaparrarono il possibile in termini di carbone e rame, diversificando i propri investimenti. A nord-ovest scavarono una miniera di rame così profonda che un tempo era il punto più basso sulla superficie terrestre. Quando lo lessi per la prima volta, mi diede da pensare. All’epoca avevo ancora il senso dell’ironia. Il punto più basso del mondo, creato dall’uomo.
Il sottotesto di questo La solitudine del ghiaccio è infatti la parte più interessante di questo romanzo d’esordio. L’autrice mostra una società contemporanea indifferente quando non violentissima contro i deboli e gli ultimi, il cui spirito predatorio si dipana sui bambini, sui nativi, gli immigrati, sul passato personale e collettivo come sulla natura in una aggressività che è degli antagonisti ma soprattutto di un sistema. Contro questi mostri questa protagonista, le cui debolezze e passato tragico scorrono insieme all’azione principale, staglia. Non c’è giustizia nel mondo, dice Yuval Noah Hariri, ma l’autrice di questo buon thriller, Sheena Kamal, non ne è convinta. E risponde mettendo in scena un personaggio fragilissimo e forte allo stesso tempo, complesso, che fa parte degli ultimi, idea per nulla scontata nel genere.
Recensione di Antonio Vena
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- Kamal, Sheena (Autore)