Nel pittoresco paesino veneto di Palù, l’armonia naturale della Valle si incrocia con un mistero inquietante. La tranquillità viene turbata dal ritrovamento del cadavere del parroco, nel cui portafogli è stata lasciata una carta dei tarocchi. “Strada inferno“, scritto da Serena Cappellozza, ci conduce in un viaggio avvincente tra indagini, segreti e oscure relazioni umane.

Protagonista di questa trama intricata è l’ispettore Corrado Benetti, un uomo determinato a risolvere il mistero che avvolge la morte del parroco. I sospetti si concentrano inizialmente sugli investimenti stranieri per un parco acquatico nella Valle, evento che ha scaldato gli animi della comunità locale. Ma le indagini si complicano, e tutti gli abitanti del paesino sembrano essere sospettati, dall’impresario all’oste irascibile, passando per il maestro di yoga e la perpetua.

Benetti troverà un prezioso aiuto nella collaborazione con la brillante psicologa Bianca e il giovane amico Nicola, un appassionato di piante della Valle. Tuttavia, una seconda morte sconvolgerà la tranquillità del paese, lasciando un sinistro tarocco del Diavolo aleggiare tra le nebbie della laguna.

Il colpevole utilizza un veleno antico e mortale, la cicuta, per compiere i propri delitti. Le vittime avevano condiviso lo stesso pasto preparato dalla perpetua, un dono apparentemente innocente dei parrocchiani per la festa del paese. Ma chi si cela dietro questi atti e quale oscuro segreto si nasconde nella mente dell’assassino?

Attraverso il diario di Nicola e la pista dei tarocchi, Bianca e Benetti sveleranno una verità sconvolgente…

L’autrice

Serena Cappellozza è laureata in Lingue e Letterature straniere e insegna a Portogruaro (VE). Ha pubblicato “Bach è morto giovane” per L’Erudita (Giulio Perrone Editore). Tra i suoi racconti “L’edera” è stato selezionato al concorso 8X8-Oblique mentre “Socialsex” è stato tra i vincitori del concorso “Giallo il libreria” organizzato da SEM e La Feltrinelli, e pubblicato dalle stesse nell’omonima antologia.

Estratto

Non aveva mai ucciso prima. Avrebbe dovuto abituarsi, cominciare con gli esseri piccoli. Stava arrivando l’autunno, gli alberi si erano infiammati di arancione e anche le ultime roulotte, quelle dei tedeschi fricchettoni, avevano lasciato il parcheggio della pineta. Nel corso dell’inverno si sarebbero visti solo qualche fotografo amante della natura e quattro cristi che venivano a passeggiare durante i fine settimana. La valle tornava terra di nessuno. Gli aironi volavano nel cielo terso e gli animali si rimpossessavano della loro casa. Valle Vecchia sarebbe ridiventata un’isola in mezzo al nulla, il salmastro delle barene e il profumo pungente dei pini non sarebbero più stati coperti dall’odore dei barbecue dei turisti e dal puzzo del viavai delle macchine. Era un bene o era un male. Era un bene o era un male si chiedevano in paese. Restare così o cambiare, accettare la promessa di un mondo nuovo di grandi alberghi, centri commerciali, gioventù. O restare così, terra di nessuno, benedetta da una natura immobile.

Non aveva mai ucciso prima così per farlo, ma se si decide di uccidere bisogna allenarsi, come in tutte le cose. Avrebbe dovuto abituarsi, partire dagli esseri piccoli.

Era arrivato l’inverno, uno di quei giorni in cui la bora spazzava la Valle con i suoi colpi gelidi e un passerotto era finito a sbattere contro la finestra ed era rimasto tramortito. Non era stato difficile, era stato un buon inizio.

Aveva tolto il giubbotto e aveva preso il passerotto delicatamente, lo sentiva agitarsi e tremare nel palmo della mano, tentava di beccare senza riuscirci, la testa imprigionata fra le sue dita. Gli occhietti scuri si muovevano a cercare una fuga. Era morbido e il cuore pulsava veloce. Era bello sentire la vita, vedere come ogni essere voglia sopravvivere. Non ci sono animali che non vogliono più vivere, solo agli uomini capita, ma non a tutti. Quando aveva premuto la manica del giubbotto sulla testolina, il passerotto si era dimenato come una lucertola impazzita. Faceva senso. Da piccoli giocavano a levare la coda alle lucertole e una volta, nel giardino di un amico, avevano trovato un secchio di plastica vicino alla pompa dell’acqua, con qualche lucertola dentro che prendeva il caldo e il sole. Era una giornata di fine aprile, l’aria era piena del profumo del glicine in fiore, le lucertole sembravano piccoli caimani, come quelli che si vedono nei documentari sulle sponde dei fiumi in Africa. Ci avevano buttato dell’acqua fino a riempirlo, le lucertole cercavano di arrampicarsi nei bordi come impazzite. Loro giocavano a ributtarle giù. Le avevano fatte affogare tutte. La notte le aveva sognate, le lucertole che si dimenavano come vermi e l’odore nauseante del glicine.

 Quando il passerotto aveva smesso di muoversi non aveva sentito niente, né piacere né dispiacere. Poi l’aveva buttato in un fosso.

In un’altra vita, sua madre, se trovava un uccellino ferito lo metteva in una scatola con l’ovatta. Lo nutrivano con i vermi e con i resti della cucina tritati, finché non guariva, per poi liberarlo nel bosco. Era successo con un piccolo di ghiandaia e con un merlo. Il merlo si era aggirato vicino casa per un po’ e veniva a mangiare dalla mano.

Nell’altra vita.

Ci aveva messo del tempo per passare ad un essere più grande. La sua scelta era caduta sul gatto selvatico che girava per il paese, uno di quei gatti gialli dal pelo ispido, con gli occhi azzurri. Ma ci aveva messo del tempo per decidersi. Lo osservava mentre girava a raccattare cibo tra l’immondizia. Era un animale grosso e furbo, rubava le crocchette dalle ciotole dei cani del circondario. Si faceva avvicinare solo con il cibo, e prima di mangiare ti scrutava con due occhi azzurri diffidenti, da bestia libera.

Aveva coltivato il pensiero per tutto l’inverno. Si sentiva speciale, come se la sua vita avesse finalmente trovato un senso, uno scopo. La gente non ci pensa, si alza, lavora, fa le sue cose un giorno dopo l’altro, per poi morire senza lasciare traccia. Ma non era più il suo caso.

Per il gatto aveva usato il veleno per topi. Ci aveva messo troppo a morire, alla fine schiumava dalla bocca. Aveva pensato di finirlo con una botta in testa, perché non era stato un bello spettacolo, anche se necessario. In quella occasione aveva capito che quel veleno non andava bene, ci impiega troppo, e uno può essere salvato.

Avrebbe dovuto studiare qualcos’altro. Ci aveva pensato notte e giorno, mentre lavorava, mentre dormiva. E non capiva, non capiva come gli altri non vedessero il suo cambiamento, come si può cambiare senza che nessuno se ne accorga, nascondendosi dietro ai soliti gesti. Aveva creato uno schermo di sorrisi, facendo attenzione a non comportarsi in modo diverso, creando una barriera tra il suo mondo e quello degli altri. Durante l’inverno a volte sognava che la sua testa era un vaso rotto, con una grossa crepa, da cui gli altri potevano veder trapelare i pensieri. Nel sogno parlava con le persone e si teneva una mano tra i capelli per coprire la crepa, perché i pensieri non uscissero come un liquido fetido, colando sul viso e mostrando a tutti quel che c’era, nella sua testa.

E poi, e poi, era arrivata la primavera.

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Strada inferno
  • Cappellozza, Serena (Autore)

Articolo protocollato da Redazione

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