“Noi ci portiamo i nostri piccoli inganni fino alla tomba. Rendiamo triviale anche la morte”
Quasi due anni fa terminavo la recensione de Il Caso Tony Veitch, lasciandovi l’incipit originale proprio di Strane lealtà e dandovi appuntamento a quando l’ottimo Alfredo Colitto avrebbe finito di tradurre anche il terzo romanzo di William McIlvanney dedicato all’Ispettore Jack Laidlaw.
Sfortunatamente, l’uscita per Feltrinelli di questo terzo capolavoro è coincisa con la morte dell’Autore (5 dicembre 2015). Una grave perdita per chi guardava a lui con ammirazione, me compresa.
Strane lealtà di William McIlvanney è dunque un fiore raro, oramai unico. Sfogliamolo insieme con delicatezza.
Se Come cerchi nell’acqua fissa “uno standard anni luce superiore alla media” (The Guardian) e Il caso Tony Veitch è un romanzo didattico sul senso della vita, Strane lealtà è un’analisi acuta e spietata dell’essere umano e delle sue convinzioni, delineata dopo averne sezionato al microscopio tutte le manchevolezze, i falsi ideali e le fragilità.
Vidi un continuo incrocio di preoccupazioni che non si notavano a vicenda, ciascuna intenta a inseguire le proprie strane lealtà. Strane e discutibili, pensai, comprese le mie. Siamo talpe che vivono alla luce, seguendo tunnel di scopi privati costruiti con cura.
(pag. 223)
Fin dalla prima pagina, l’ispettore Laidlaw non nasconde che sta macerandosi nel dolore per la morte del suo unico fratello in un incidente. Una settimana di ferie arretrate quindi rappresenta un’occasione imperdibile per compiere un viaggio nella memoria familiare, nei luoghi toccati dalla vita dell’amato fratello e, più ancora, dentro sé stesso.
Pur disilluso nei confronti del proprio lavoro, deve riconoscere però di possedere un unico grande talento, quello dell’investigazione, che può essere usato come chiave di lettura di ogni realtà.
Detective, indaga te stesso. Un uomo era morto, un uomo che amavo forse più di chiunque altro. Nessuno l’aveva definito un “crimine”, ma quella morte mi era sembrata ingiusta e senza senso come tante che avevo visto…. Perché lui era ricco di potenzialità, così pieno di vita, così immeritevole (non lo siamo tutti?) di una morte insensata.
(pag. 18)
Il talento e la tenacia lo porteranno a individuare le strane lealtà che avevano unito in una stretta mortale i personaggi raffigurati in un quadro dipinto dal fratello Scott, ma la buona riuscita dell’investigazione non lo conforterà affatto. Jack Laidlaw non si assolve mai, anzi si infligge pene psicologiche indicibili, costringendosi a pensare e ripensare ai propri errori e alla propria inadeguatezza a vivere la vita.
Chiuso nella spirale del proprio dolore esistenziale, si aggrappa a complicati schemi mentali per non sprofondare nel nichilismo più assoluto, ma la disillusione e l’alcool gli faranno perdere la partita, tanto che nel redde rationem finale con sé stesso concluderà amaramente che “Il prezzo da pagare per raggiungere una visione personale è la solitudine di doverci poi convivere” (pag. 239).
Un simile pensiero suona sinistro alla luce della morte dell’Autore, e quasi farebbe pensare ad un’analisi ultimativa di McIlvanney nei confronti dell’esistenza, una sorta di testamento spirituale e poetico. Dobbiamo invece tener conto che Strane Lealtà è stato scritto nel 1991 e che la raffinata poetica esistenzialista dell’Autore non indulge al vuoto ma aspira alla pienezza di un vivere in armonia con sé stessi.
Pensai che l’essenza della nostra vita non sta nella sconfitta delle nostre aspettative, ma nella gioia di averci avuto delle aspettative. La vita è una madre spendacciona. E dopo che ha dato via tutto quello che aveva, è da ingrati lamentarsi che non abbia avuto la previdenza di aprire una polizza assicurativa a nostro nome. Bisogna solo ringraziare.
(pag. 329)
La trilogia dedicata a Laidlaw rappresenta uno straordinario caso letterario che travalica la letteratura di genere perché possiede sia un’attualità di temi e riflessioni strabiliante sia un oggettivo valore sociologico, consegnandoci uno spaccato della società scozzese tra gli anni 1970 e 1990.
Una pietra miliare del noir che colloca McIlvanney tra i migliori giallisti di sempre (il Telegraph lo ha inserito nella sua lista dei 50 giallisti da leggere prima di morire) e che costituisce una pesante eredità per chi ambisca a eguagliarlo.
NotedellaRossa
Dal fondatore del Tartan Noir si può solo imparare, sottolineando e studiando il testo con rispetto e dedizione, rigo per rigo, citazione per citazione.
Curiosità sul libro
Negli ultimi anni avevo provato più volte a contattare McIllvanney per farmi rilasciare un’intervista, come d’altronde Thriller Caffè è uso fare con tutti i grandi scrittori. Il suo silenzio è stato impenetrabile. La sola realtà è che le mie domande non erano stimolanti per un artista, che aveva più volte dichiarato: “Se non ho nulla di interessante da dire, perché dovrei sottostare alla pressione delle case editrici che vogliono uscire con un romanzo nuovo all’anno?” Una lezione di vita, oltre che un esempio da seguire. Resta in rammarico di non averlo capito prima e di non poter più rimediare.
Incipit
Mi svegliai con la testa che sembrava un rodeo. Non è doloroso divertirsi? Badate, la notte precedente non era stata un divertimento, il whisky l’avevo preso come anestetico. Ora che la sbronza stava passando, il dolore era peggiorato. E’ sempre così.
Figlio di un minatore, William McIlvanney nacque a Kilmarnock nel 1936 e, dopo gli studi all’Università di Glasgow, fu prima insegnante di inglese, dal 1960 al 1975 per poi intraprendere una feconda e intensa attività come scrittore di romanzi polizieschi (ma non solo) e poeta.
Nel corso della sua carriera ha incontrato un buon successo di pubblico, in particolare in patria, e ha anche raccolto un buon numero di importanti premi, fra i quali occorre almeno ricordare il Geoffrey Faber Memorial Prize per Remedy is none (1966), suo esordio letterario; l’importante Whitbread Novel Award per Docherty (1975) e infine il Saltire Society Scottish Book of the Year Award ottenuto per l’intenso La fornace del 1966.
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