Grazie alla traduzione di Alberto Pezzotta per Longanesi, sbarca per la prima volta in Italia l’autore irlandese Adrian McKinty, recensore e critico per “The Sidney Morning Herald”, “The Irish Times”, “The Guardian” e altri giornali. La storia di McKinty ha un fascino tutto particolare. Fin dal suo primo thriller (Dead I Well May Be) l’autore irlandese ha messo in evidenza un talento fuori dal comune, venendo infatti selezionato come finalista per il Dagger Award 2004 e poi opzionato dalla Universal Pictures. Successivamente McKinty ha vinto numerosi premi letterari come il premio Barry, l’Edgar Award, il Ned Kelly Award, l’Anthony Award. Pur essendo rapidamente divenuto uno scrittore di successo, noto al grande pubblico e acclamato dalla critica, ha dovuto presto fare i conti (letteralmente) con la triste realtà della maggior parte degli scrittori: “i miei libri vendevano due o tremila copie all’anno, e non stavo fornendo alcun reddito reale alla famiglia”. Quando nel 2017 viene sfrattato da casa per problemi economici, decide di smettere di scrivere. A questo punto, come nelle migliori favole, accade qualcosa di inaspettato. Lo scrittore e suo amico Don Winslow lo patrocina presso il suo amico Shane Salerno (sceneggiatore, produttore e regista), il quale lo convince (anche foraggiandolo) a scrivere il romanzo che McKinty ha in mente. Si tratta proprio di questo corposo thriller (oltre 350 pagine) intitolato The Chain (“La catena”), la cui bozza è stata prima letta da autori del calibro di Steve Hamilton, John McFetridge, Steve Cavanagh. Il romanzo entra subito nella lista dei “New York Times Besteller”, cambiando così il destino anche economico del giovane scrittore irlandese, che il mese scorso ha dichiarato al Telegraph: “ho rinunciato a scrivere e ho trovato lavoro in un bar. Un anno e mezzo dopo il mio libro è stato venduto in 36 paesi”.
La catena di McKinty è una catena terrificante, fatta di madri disperate che per salvare i loro figli vengono trasformate in criminali. Rachel Klein è infatti una madre qualunque, non ha mai fatto del male in vita sua, è alle prese con un nuovo lavoro, reduce da un divorzio e da un cancro. Dopo la chemio le sono ricresciuti i capelli, sta recuperando peso e si sente di nuovo in forze. Sta tornando a essere la persona pratica e organizzata che era prima. Invece no: basta una telefonata da un numero occultato per farla rimpiombare nell’abisso. Dall’altra parte dell’apparecchio c’è un’altra donna, un’altra madre. È disperata perché suo figlio è stato rapito. È una vittima, dunque, ma per salvare il suo bambino ha dovuto seguire delle istruzioni che l’hanno trasformata in carnefice: ha appena rapito Kylie, la figlia adolescente di Rachel.
Non si tratta di un rapimento classico. Affinché Rachel possa rivedere la sua bambina non sarà sufficiente soltanto pagare il riscatto, ma bisognerà invece che Rachel si trasformi anch’ella in una delinquente, ed entro ventiquattr’ore rapisca a sua volta il figlio di qualcun altro, che sostituisca sua figlia Kylie nella catena.
Chi può nascondersi dietro un’organizzazione così diabolica e perversa? Chi e cosa c’è dietro questi sequestri? Rachel vorrebbe cercare le risposte a queste domande, vorrebbe spezzare la catena, ma questo potrebbe significare la morte della persona più importante della sua vita, con la quale ha un legame indissolubile. Il solo pensiero di mettere a rischio la vita di sua figlia Kylie è un’ipotesi che non può essere neppure contemplata. Come può allora Rachel tornare a essere una madre qualunque, a uscire da questo atroce incubo senza trasformarsi in una belva spregiudicata, senza assoggettarsi alle terrificanti richieste della catena?
È l’autore stesso – nella postfazione – a confidare da dove è venuta l’ispirazione per questa idea narrativa molto originale (basti pensare a quanto accattivante sia, di per sé, la sovrapposizione dei ruoli di vittima e carnefice). McKinty ha vissuto la sua infanzia in un’Irlanda molto superstiziosa in cui imperversavano catene di Sant’Anonio jettatorie. Così, quando nel 2012 a Città del Messico è venuto a conoscenza di un particolare tipo di rapimento in cui un membro della famiglia si offriva in ostaggio in cambio della liberazione di qualcuno più vulnerabile, una lampadina s’è accesa e la sua vena creativa ha fatto il resto. L’autore ha infatti sovrapposto questi due spunti e ne ha ricavato un racconto, salvo poi rendersi conto che la storia aveva le potenzialità e il respiro di un romanzo. Con una premessa forte e originale come questa, c’era il rischio (scongiurato) che la storia rimanesse confinata nell’antefatto, il quale da solo garantiva una totale e immediata identificazione del lettore con la protagonista. Non è forse un pazzo mondo, quello contemporaneo, in cui la privacy è una chimera annientata dai social? Non è forse vero che ognuno di noi è esposto, e potrebbe cadere vittima di qualche squilibrato? In questo quadro pericoloso e privo di punti di riferimento, le paure più profonde dell’essere umano si concretizzano sulla punta della penna di un abile romanziere. Ogni essere umano, posto in situazioni estreme, potrebbe violare i propri principi e la propria etica. Non è così? Quanti sarebbero disposti a compiere un gesto bieco e criminale se questo significasse salvare la vita del proprio innocente cucciolo? Tu, lettore – sembra chiederci l’autore – saresti disposto? Cosa faresti, tu? In questo modo il romanzo ci costringe ad una sorta di autoanalisi e ad un impietoso esame della nostra morale. È la nostra psiche, insieme a quella della protagonista (vittima-carnefice), ad essere sotto esame. Ci sembra di specchiarci in profondità, oltre la coltre di razionalità che normalmente nasconde quegli aspetti destabilizzanti del nostro io. Come nell’esperimento di Milgram (sulla cieca obbedienza all’autorità e sulla crudeltà sociale), la verità – laggiù in fondo allo specchio – potrebbe essere sorprendente. Tutti potremmo far parte della “catena” anche se non ci piacerebbe, anche se nessuno di noi lo ammetterebbe mai. Tutti (o quasi) faremmo la scelta filosoficamente ed eticamente sbagliata, eppure inevitabile.
Nella seconda parte del libro (che è quella in cui la catena si potrebbe spezzare e si dovrebbe comprendere chi e cosa ci sia dietro) si attenuano alcuni caratteri tipici del thriller (come la suspense) che vengono fisiologicamente sostituiti da introspezioni e riflessioni che conducono alla parziale e graduale comprensione e svelamento dell’arcano. Questo potrebbe generare una leggera perdita di verve e di tensione narrativa, tuttavia perfettamente gestita dall’autore in modo funzionale alla storia. Infatti il romanzo segue una sua evoluzione profonda che a dispetto dell’apparenza caotica e spasmodica della superficie, nelle viscere è molto ragionata, logica e ordinata.
La scrittura attraverso cui McKinley plasma questa storia appare nitida, limpida, diretta, asciutta. Certamente evocativa ed efficace nel disegnare dentro la mente del lettore, ma al tempo stesso (se volessimo trovare un difetto a un’opera che non ne ha) in linea con le finalità per le quali questo romanzo è stato concepito, vale a dire da bestseller. Come se fosse una scrittura controllata e tarata erga omnes, per poter subito vendere i diritti alla Paramount, per piacere a tutti, e per ciò stesso troppo progettata, poco istintiva, meno caratterizzata che caratterizzante. Per il resto non c’è dubbio che McKinty sia un cavallo di razza.
Gli amanti delle curiosità saranno lieti di sapere che questo romanzo è stato terminato a Praga, nell’Hotel che un tempo fu l’ufficio di un immenso genio della letteratura mondiale: Franz Kafka.
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