Sinossi: Lone Man, un killer di colore dai modi di fare estremamente posati e meticolosi decide di chiudere la sua carriera con un’ultima missione criminale, per poi ritirarsi a vita privata e godersi la pensione anticipata. Il suo ultimo “lavoro” deve essere svolto in Spagna, tra Madrid, Siviglia e la Sierra desertica. Per raggiungere il suo obiettivo il killer dovrà decriptare alcuni indizi piuttosto enigmatici e seguire le tracce lasciate da alcuni bizzarri personaggi incontrati lungo il suo percorso.
Lone Man è un sicario cupo e solitario, un personaggio misterioso, un uomo di colore di cui non sappiamo sostanzialmente nulla. Lo troviamo davanti al tavolino di un bar di alcune città spagnole, o seduto in aereo o in treno, mentre si sposta da un luogo a un altro, sempre con di fronte due caffè espresso, ordinati rigorosamente in tazzine separate. Nel suo viaggio tra Madrid e l’Andalusia il killer incontra alcuni stravaganti personaggi che scambiano con lui delle scatolette di fiammiferi contenenti un biglietto con un messaggio, che il sicario inghiotte dopo avere letto, utilizzando la seconda tazzina di caffè per digerirlo. Durante la breve conversazione che accompagna lo scambio di scatole, i suoi interlocutori svolgono delle criptiche riflessioni di carattere filosofico di cui non capiamo bene il senso ma che ci aspettiamo fungano da indizi/raccordi per il prosieguo della storia, anche se ciascun incontro risulta essere soltanto una mera variatio del precedente.
L’esile trama che abbiamo appena raccontato si riperpetua ad libitum in un loop visivo, linguistico e narrativo che sostanzia e struttura l’intera vicenda del film. La dinamica della suspense e, più in generale la domanda narrativa del film, si riferisce principalmente a un senso di attesa, a qualcosa che riteniamo (e auspichiamo) probabile possa irrompere da un momento all’altro per spezzare la coazione a ripetere su cui, come se il plot stesse scivolando su una specie di nastro di Moebius, si è incastrato il film.
La messa in scena è in genere molto minimale, gli eventi narrativi sotto traccia, i profili esistenziali ed emotivi dei personaggi sono sfuggenti se non addirittura completamente inintelligibili. Ma non si può dire che non The Limits of Control sia un film poco narrativo. Anzi. Le convenzioni e gli stilemi di genere sono quelli canonici della detection. E ci aspettiamo possa succedere qualcosa da un momento all’altro proprio perché l’orizzonte di genere (con i suoi codici e i suoi tools) è da subito perfettamente individuato. Non è la confezione narrativa a mancare ma, per così dire, non riusciamo a far quadrare i conti rispetto a quello che ci sta dentro. Ci viene presentato un mistero, c’è qualcosa che avvertiamo da subito come straniante e problematico, ma l’enigma da risolvere non riguarda tanto il livello della storia quanto piuttosto una specie di slittamento ontologico tra ciò che viene raccontato e quello che percepiamo tra le pieghe del film, nei suoi spazi interstiziali, come se le normali coordinate dello spazio/tempo e i consueti rapporti di causa/effetto fossero (stati) sospesi. Uno scarto metafisico innanzitutto. A un primo sguardo la realtà appare esattamente come quella che conosciamo ma, man mano che ci addentriamo all’interno del film, ci accorgiamo che risulta spostata su altri assi di senso e di significato rispetto alle normali leggi di verosimiglianza di un mondo narrativo.
Lone Man si presenta come il classico killer apparentemente in controllo la cui furia omicida e devastatrice può però esplodere da un momento all’altro (è chiaro che Jarmush, nel tratteggiare il suo protagonista, utilizza il portato simbolico dei personaggi interpretati da Samuel L. Jackson per Tarantino). Il suo body language è imperscrutabile. Ogni suo movimento è trattenuto, anche quando si distende al fianco di sinuose nudità femminili, non le tocca, “niente sesso quando sono in servizio”. Il significato delle sue azioni, come quello degli esercizi di thai-chi che esegue con rigorosa disciplina ogni mattina, ci è del tutto incomprensibile. Come quando si siede a contemplare delle opere d’arte al museo Reina Sofia di Madrid, quasi che gli enigmatici quadri che gli si parano davanti gli suggerissero la prossima mossa da fare.
Lone Man è un non-personaggio, una mera funzione narrativa deprivata di un profilo esistenziale e psicologico. Non riusciamo a venire a sapere nulla sul suo conto, e tantomeno a provare per lui una qualche forma di empatia. Il suo obiettivo (criminale) si rivela a tutti gli effetti come un (falso) movimento che non porta il film da nessuna parte ma che, anzi, finisce per sgretolare, oltre che le convenzioni e i codici di genere disseminati nel corso della narrazione, anche lo stesso valore (di) significante del film, rivelandoci la (sua) sostanza illusoria di simulacro che ha soppiantato e fagocitato al proprio interno il “reale” di cui è segno, svuotandolo dai suoi significati pre-costituiti in quanto il suo esistere dipende soltanto dalla categoria della reiterazione.
Eppure, nonostante, questo processo di progressiva smaterializzazione, Lone Man sembra continuare a sapere in che direzione andare e quali obiettivi sarà necessario perseguire. Noi non ci raccapezziamo e brancoliamo nel buio più pesto ma lui rimane sempre perfettamente in controllo e pare non avere alcun dubbio su ciò che deve essere fatto. Il cambio di velocità, l’atteso turning point che restituisca un senso (anche retrospettivo) all’enigmaticità delle sue azioni, non solo non si verifica, ma quando Lone Man si trova finalmente di fronte l’uomo che deve uccidere – non a caso interpretato da un attore la cui carriera deve molto a un vero e proprio manifesto della coazione a ripetere e del riazzeramento narrativo come Ricomincio da capo – l’omicidio si verifica senza resistenza e (ancora una volta) in totale controllo, come se fosse in qualche modo inevitabile e necessario, svelando la natura automatica e di macchina celibe del film di Jarmush, che procede come regolato da un programma/organismo cibernetico che determina – ab origine – la direzione narrativa del film e su cui il personaggio, così come il nostro sguardo, non può che conformarsi.
La suspense qui sta nell’aspettare fino allo sfinimento che succeda qualcosa, nel ricalibrare costantemente il nostro sguardo, alla ricerca di un gesto, un dettaglio, un evento narrativo ancorché minimale che possa fare emergere l’idea di un disegno complessivo. Attesa che si rivela destinata allo scacco ma che ci consente di riformulare più radicalmente la domanda narrativa sottesa dal film. Quali sono dunque i limiti del controllo? Ma soprattutto: di quale controllo di parla qui? Il controllo/savoir faire esercitato su se stesso dal personaggio interpretato da Bankolé, un killer di cui non sappiamo nulla e sul cui sguardo tentiamo inutilmente di allinearci, oppure l’idea (ingenua) che ci possa essere un qualche controllo/regia esercitato dall’autore/regista sul proprio film o ancora il controllo/verifica ermeneutica a cui è chiamato il pubblico del film?
In fondo, l’esperienza della suspense si configura quasi sempre come il tentativo dello spettatore di delimitare ed esplorare un territorio che possa essere controllato, conosciuto e sorvegliato, per mantenere il suo sguardo allineato e vigile su quello che sta succedendo, salvo poi scoprire che c’è sempre uno sguardo altro, un punto di vista non fagocitabile e non prevedibile che è innanzitutto lo sguardo, sempre eccedente, sempre automatico e sempre incontrollabile, rappresentato dal dispositivo cinematografico.
La suspense ci mostra che la realtà è parziale, che non possiamo mai conoscere e coprire l’intera storia e che c’è uno sguardo che guarda di più e meglio di quello che guardiamo noi, da una prospettiva diversa che non avevamo neppure contemplato, rivelandoci la precarietà e la frammentarietà della nostra costruzione identitaria e della nostra visione del mondo.
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