Sinossi: Gli abitanti di un villaggio simil-luterano immerso nei boschi vivono in armonia con la natura isolati dal resto del mondo. Non per tutti l’isolamento è una scelta, in quanto da tempi immemorabili l’ingresso nei boschi, popolati da misteriose e sanguinarie creature, è vietato. Una tregua è stata stabilita tra gli uomini della piccola comunità e i misteriosi esseri vestiti di rosso. Lucius, insofferente verso l’imposizione, sfiderà il divieto e risveglierà i tanto temuti esseri silvani. La giovane non vedente Ivy lo seguirà mettendo a repentaglio la sia vita.
L’interpretazione più accreditata di The Village è quella che lo legge in chiave politica come un film sulla paura. The Village racchiude nel suo microcosmo accerchiato i due volti a stelle e strisce dell’America dell’avventura della Mayflower e della guerra preventiva post 11 settembre: un paese che rifiuta l’incontro con chi è diverso, si rinchiude nelle proprie tradizioni e le scambia per verità incontrovertibili. Il male è percepito come un qualcosa che viene sempre e comunque dall’esterno, fuori di sé, al punto da credere che la salvezza sia raggiungibile solo con l’isolamento dal resto del mondo. In The Village risuona il rimpianto di un età dell’oro innocente e aurorale, da cui l’America è stata definitivamente risvegliata all’inizio del terzo millennio in seguito all’incontro con un’alterità tanto più mostruosa quanto più i suoi contorni risultano opachi e sfuggenti.
Tutto giusto, ma la chiave politica della “paura dell’altro da sé” non esaurisce appieno lo specifico ubi consistam del film, perché, se è vero che The Village è un film sulla paura innescata da ciò che viene dall’esterno e che ci spaventa perché non lo conosciamo, è altrettanto vero che esso è soprattutto un film sulla paura (e sulla conseguente suspense) che scaturisce dall’interno della realtà che abitiamo, proprio perché cominciamo a percepirne la problematicità, lo svuotamento e al contempo l’infondatezza.
Convington è un piccolo villaggio americano della Pennsylvania, dimora e riparo di una comunità ottocentesca smaccatamente tradizionalista e conservatrice, che abbiamo visto raccontata tante volte al cinema, col suo consiglio di anziani, il suo “saggio”, il personaggio imprevedibile e fuori dagli schemi, lo scemo del villaggio e la bella eroina pronta al sacrificio estremo. Una cittadina che non contempla altri sistemi di vita possibili al di fuori del proprio, in una inquietante e anacronistica semplificazione manicheistica dalla complessità e delle contraddizioni della società contemporanea. La stranezza del villaggio sta innanzitutto nel bosco che lo circonda, che costituisce uno schermo dal mondo esterno per via delle misteriose creature che lo abitano, le quali non permettono il passaggio agli esseri umani che anzi, per quietarle, si sono obbligati a non uscire dal limitare del bosco, secondo quanto stabilito da un patto di non belligeranza reciproca stipulato tempo addietro con gli anziani. Una stranezza che, come spesso accade al cinema, nelle fasi iniziali del film, non viene neppure problematizzata più di tanto. Del resto, i fondatori della piccola comunità sembrano avere tutti un passato traumatico alle spalle e appaiono come in fuga dalla violenza del mondo dove sono cresciuti, ragione per cui ci convinciamo sin da subito che la comunità custodisce un sinistro e doloroso segreto (Town with a dark secret).
Una comunità ideale e apparentemente perfetta quella di Convington, che si sostiene su un ferreo tradizionalismo, bandisce del tutto il denaro e si regge sull’oligarchia intellettuale degli anziani, tanto da sembrare l’inveramento del tanto auspicato governo dei filosofi proposto da Platone ne La Repubblica, e per la quale è ancora più valido l’antico interrogativo platonico del “chi custodirà i custodi?”. Ed è questa la domanda che ci porta al vero quid di The Village, tanto più che un custode esterno al villaggio c’è veramente e ne scopriremo l’identità alla fine del film.
In questa tipologia filmica i personaggi di un mondo narrativo sono in fondo simili ai prigionieri della caverna di cui Platone ci parla ne La Repubblica, che guardano le ombre di statue e oggetti proiettate su una parete da una luce che sta alle loro spalle, credendo che siano l’unica realtà di cui possono fare esperienza, salvo poi comprendere di essersi ingannati e che la realtà è molto diversa da quella che hanno sempre considerato tale. Nel racconto mitico il filosofo immagina alcuni schiavi incatenati sino dall’infanzia in un antro sotterraneo e costretti a vedere solo il fondo della caverna, sul quale vengono proiettate le ombre di oggetti di ogni sorta, statue e altre figure antropomorfe, che alcuni uomini portano facendole passare sopra un muro disposto alle spalle degli schiavi. La proiezione è possibile perché al di là del muro arde un fuoco che illumina le statue stesse. I prigionieri, che non hanno mai conosciuto nulla di diverso da quanto vedono proiettato sulla parete, scorgono le ombre e credono che esse siano l’unica realtà.
La situazione degli schiavi dentro la caverna rappresenta metaforicamente la conoscenza sensibile, per cui i prigionieri vedono le ombre delle statuette proiettate sulla parete e non quelle dei loro portatori, situazione che in The Village è perfettamente esemplificata dagli anziani che manovrano e/o impersonificano le supposte creature sanguinarie che sembrano tenere in scacco la comunità. Quella sensibile, però, a giudizio di Platone, è una conoscenza imperfetta e parziale che va superata. Il vero filosofo è colui che riesce a liberarsi dalle catene, esce all’aria aperta e conosce direttamente le cose reali, le quali, nel mito, simboleggiano le Idee.
Ora, la storia (di Lucius e) di Ivy riproduce quasi alla lettera le fasi (principali) in cui è articolato il mito della caverna: esiste una comunità che vive in un mondo di ombre, costruito sull’ipocrisia e sull’inganno, la ragazza cieca (Disability Superpower) è l’unica a ricevere la rivelazione negata agli altri uomini (perché è l’unica, proprio in quanto cieca, in grado di vedere ciò che veramente è, che, platonicamente, è al di là dei sensi e invisibile alla semplice vista corporea), riuscendo ad attingere alle sue energie più riposte che le consentono di scoperchiare il sistema di rappresentazione e di messa in scena ordito dal consiglio degli anziani e di trovare la forza per uscire dalla realtà apparente di Convington per fare esperienza di quella autentica che sta oltre il bosco. Come l’uomo platonico, accecato dalla lucentezza del sole, anch’ella dovrà abituarsi alla luce intelligibile dell’Idea, salvo poi tornare nella caverna dai suoi fratelli per denunciare l’inganno in cui sono reclusi e rivelare l’infondatezza della tradizione tramandata dagli anziani.
Per curare l’amico Lucius, ferito quasi mortalmente e che le ha da poco confessato il suo amore, Ivy riesce a superare il timore per l’ignoto e a intraprendere un cammino di conoscenza e di emancipazione. Passa così dai gradi più bassi dell’opinione, la dóxa (che comprende l’eikasía, cioè l’immaginazione, simboleggiata dalle creature mostruose che si rivelano come degli inermi e ridicoli fantocci, e la pístis, le credenze e le false convinzioni in cui versa gran parte del villaggio) a quelli dell’epistéme, la conoscenza intelligibile e razionale che, attraverso il ragionamento deduttivo della diánoia, suggerisce a Ivy che le abitudini e l’ovvietà dell’esperienza le hanno fin lì impedito di “vedere” veramente, procurandole la convinzione che, attraverso un impervio percorso di purificazione, si possa superare la barriera che separa il villaggio dal resto del mondo. In questo modo la ragazza riesce infine a giungere al cospetto della nóesis, la conoscenza intellettiva vera e propria, che si realizza attraverso la visione diretta delle Idee. Il film si chiude con Ivy che torna al capezzale del suo amato sussurrando “Eccomi Lucius”, lasciando presagire che forse la Luce si irraggerà su tutta la comunità, o che invece Ivy sarà costretta a misconoscere e a dimenticare la sua esperienza di Verità.
In The Village la suspense è innescata dal progressivo emergere di dettagli dissonanti e distonie che mostrano delle falle nel sistema di rappresentazione della realtà circostante e che sembrano individuare uno scarto tra quanto sostenuto inizialmente sullo statuto del mondo narrativo convocato e quanto invece inizia a venire percepito dal nostro sguardo vicario, quello del protagonista. A partire dall’irruzione della percezione di questa falla del reale è sospeso e problematizzato lo svolgersi naturale della narrazione e la soggettività dello spettatore è completamente coinvolta nel tentativo di ricollocare gli elementi fuori posto e individuare una nuova chiave interpretativa attraverso la quale conferire coerenza e misura al mondo di cui è chiamato a fare parte. L’elemento stonante, che esaspera la suspense proprio perché dissolve e disgrega progressivamente lo spazio-tempo del mondo convocato, è rappresentato dal Chronos, cioè da quello strumento narrativo deputato alle strategie discorsive che dislocano i dispositivi temporali e cronometrici (analessi, prolessi, anacronie, timelock etc.) ma che qui riguarda, più originariamente e più sorprendentemente, il tempo storico, l’epoca reale in cui è effettivamente ambientato il film.
Il film di Shyamalan si configura allora come un sofisticato congegno di Chronos, in cui il coup de théâtre conclusivo – inevitabile trattandosi di Shyamalan – è tutto interno alla dimensione del tempo e la suspense si carica all’ennesima potenza proprio perché per più di un’ora e mezza abbiamo abitato una temporalità inautentica (inautenticità che è anche intrinsecamente morale), nella quale siamo in qualche misura stati costretti a seguire la strada già tracciata per noi da qualcun altro e da cui siamo riusciti a uscire soltanto attraverso il percorso di emancipazione di Ivy, risignificando e rifigurando completamente la serie di segni, di rituali e di comportamenti che ci erano stati surrettiziamente presentati come incontrovertibili.
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