La Trilogia della Frontiera è uno dei punti più alti della produzione letteraria di Cormac McCarthy, forse la più sofferta, senz’altro tra le più rappresentative.
Scritta tra il 1992 e il 1998, è composta da Cavalli Selvaggi, Città della pianura, e Oltre il confine, tutti ambientati tra il Texas e il Messico in un periodo che sfiora e attraversa la seconda guerra mondiale.
Cavalli Selvaggi racconta le vicende di John Grady Cole e del suo amico Rawlins, che appreso dell’imminente chiusura del loro ranch decidono di partire alla volta del Messico per trovare lavoro come cowboy. Lungo il viaggio incontreranno Blevins, un ragazzino un po’ bugiardo e sbruffone, ma in fondo molto spaventato da qualcosa di cui si ostina a non parlare, che sarà l’artefice di tutti i guai che seguiranno nel libro, alcuni dei quali dal tragico epilogo.
In Oltre il confine Billy Parham e suo fratello Boyd vanno alla caccia di una lupa che sta seminando il terrore negli allevamenti di bestiame del luogo. Quando riescono a catturarla decidono che anziché consegnarla al loro padre, e dunque ad una morte certa, saranno loro a portarla in Messico, tra quelle montagne dove si suppone sia la sua casa, per restituirla a dove appartiene.
Città della Pianura ritrova i protagonisti dei primi due romanzi, John Grady Cole e Billy Parham, lavorare come cowboy per un allevatore del New Mexico e condurre un’esistenza tutto sommato tranquilla, sino a quando l’incanto si spezza in seguito all’incontro e all’innamoramento tra Grady Cole e una giovanissima prostituta messicana.
E’ difficile dire cosa colpisca di più di questi tre splendidi romanzi di McCarthy, perchè molti sono i temi e i diversi livelli di lettura. A cominciare dal concetto di frontiera, inteso come luogo fisico ma anche, e soprattutto, come piano dell’esistenza. Un confine che è prima di tutto una meta, un lontano luogo d’approdo lungo il cui cammino la vita può cambiare radicalmente. Un confine divide gli Stati Uniti dal Messico, e un altro meno palpabile divide l’adolescenza dalla maturità. I protagonisti dei libri di McCarthy sono dei giovani ragazzi, eppure esibiscono un’attitudine da adulti. Parlano poco, giusto l’essenziale, e hanno già imparato a dare il giusto valore a quelle poche cose che rendono dritta la spina dorsale di un uomo: la fedeltà a un amico, l’onestà del lavoro, il non tradire se stessi. Sono animati dall’irresistibile desiderio di ricerca. Come un moderno richiamo della foresta, lasciano le famiglie non sentendo più di appartenervi. Non per mancanza di affetto, ma per la più primordiale consapevolezza di appartenere ormai a qualcos’altro, e dunque obbligati dalla loro natura a capire cosa sia questo qualcosa, e a cercarlo con ostinazione.
Il Messico è il loro Eden. Là crederanno di trovare ciò che a un uomo basta per vivere, pronti ad affrontare tutte le prove che il destino gli metterà in conto.
Il loro è un viaggio nelle profondità della meravigliosa natura americana, fatta di cieli sterminati e di distese di terra i cui confini sfuggono a qualsiasi sguardo. Un viaggio che è anche riscoperta del primordiale rapporto tra l’uomo e la natura, in antitesi a qualsiasi sostrato di civiltà. E’ questo un topos letterario che McCarthy dimostra non essere mai tramontato, e che da Mark Twain a Kerouac percorre come un lungo fiume il bellissimo corso della letteratura americana.
E’ nella natura che l’uomo trova i suoi pensieri più genuini, le risposte a domande taciute o mal poste, in una parola la propria casa. Ed è nella natura, più che nel Messico in sé (qui solo simbolo di uno stato mentale) che Grady Cole e Rawlins sembrano finalmente trovare la pace, quella sorta di personale paradiso terrestre che consiste nel semplice avanzare dei giorni, senza grandi aspettative e traendo soddisfazione dal semplice far bene il proprio lavoro.
E’ qui che McCarthy colloca i due ragazzi nell’ultimo dei tre libri, Oltre il confine. Li ritroviamo stretti da un’amicizia inevitabile per spiriti così affini, a fare quello che avevano sempre desiderato fare: i cowboy. A non desiderare nient’altro, appagati e con quel fuoco di impazienza che sembra finalmente spento. Ma il paradiso terrestre ha le sue regole, e chissà quanto volontario riferimento alle Sacre Scritture c’è nel far finire tutto con la passione di Cole per una donna. Conosciuta la sua Eva, e morso il frutto proibito, tutto precipita inevitabilmente. C’è nell’intera trilogia un senso di tragico sempre incombente, ma mai così forte come nella tragedia che si profila dal momento in cui l’amore tra Grady Cole e la prostituta si rivela impossibile da compiere. Assistiamo impotenti, pagina dopo pagina, al montare della fine di tutto. Un dolore che Rawlins, indenne sino a quel momento alle gioie ma anche agli strazi dell’amore, tenta in tutti i modi di evitare all’amico, invano. Per la prima volta John Grady Cole non sembra così adulto, ma solo quello che alla fine è: un ragazzo impazzito per una donna, che si ostina a combattere una battaglia che ha già perso.
Il confine è attraversato, e oltre l’Eden si trova anche l’inferno. A questo i due ragazzi non erano preparati.
Difficile non divorare questi libri, non desiderare che durino per sempre. Merito della scrittura di McCarthy, lirica ed essenziale allo stesso tempo, asciutta nei dialoghi e in quei pochi tratti che servono a descrivere i personaggi. Ogni parola è necessaria, nessuna superflua. La narrazione è nel contempo avvolgente. Noi leggiamo e siamo con John Grady Cole, a cavallo verso il Messico, con la paura che si avvolge alla speranza e ne fanno un tutt’uno che non si capisce più cosa sia l’una e cosa l’altra. Dormiamo all’aperto, accanto ai cavalli, con un orecchio sempre vigile e la pistola sotto il sacco a pelo. Proviamo affetto verso questi ragazzini uomini, che non tradirebbero un amico nemmeno se prossimi a morire, e che tra scegliere la strada facile o la strada difficile scelgono sempre la strada giusta. McCarthy racconta in questi libri un’America che non c’è più. Un’America la cui eco lontana si può trovare solo andandola a cercare a fondo, e abituandosi al silenzio. E racconta un’altra, ennesima perdita dell’innocenza del popolo americano, sempre alla ricerca di una maturità che sembra non trovare mai.
Ma forse, come diceva quel poeta greco, non è la meta che conta. Ma il viaggio.
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