Qualche settimana fa la Casa Editrice Longanesi (collana “La Gaia Scienza”), con la traduzione di Mirko Zilahy, ha pubblicato Tutti i miei errori, l’ultimo thriller di Dennis Lehane. L’autore non ha bisogno di grandi presentazioni, essendo insegnante di scrittura creativa avanzata all’università di Harvard, sceneggiatore di serie tv (“The Wire”, “Boardwalk Empire”), nonché autore di numerosi best-seller pluripremiati (premio “Edgar Award”, “Anthony Award”, “Barry”, “Nero Wolfe”, “Dily”), tradotti in oltre trenta lingue e in alcuni casi divenuti materiale prezioso per registi del calibro di Clint Eastwood, Martin Scorsese e Ben Affleck, che ne hanno realizzato importanti lungometraggi di meritato successo internazionale (rispettivamente Mystic River, Shutter Island e Gone, Baby Gone) .
Tutti i miei errori è il romanzo che chiude una trilogia iniziata nel 2008 con Quello era l’anno e proseguita nel 2010 con La legge della notte, il cui protagonista è Joe Coughlin, il figlio di un poliziotto di Boston che facendosi strada nell’America del proibizionismo si è ritagliato un ruolo crescente nel malaffare, fino a raggiungere il gotha del crimine organizzato.
Premesso che si tratta di una serialità verticale, che per essere apprezzata non richiede la conoscenza delle due puntate precedenti, diciamo che questo terzo e ultimo episodio è ambientato nella suggestiva città di Tampa, in Florida, in un anno molto particolare: il 1943, ricostruito e fatto rivivere in modo magistrale dall’autore. Il mondo è impegnato nella Seconda Guerra Mondiale, e ciò costituisce un diversivo ideale per il proliferare della criminalità organizzata statunitense. Joe Coughlin è ormai un ex gangster che ha perso la moglie in un agguato. Non è più il malavitoso di un tempo. Adesso si è ripulito, passa per essere un filantropo. Ha una villa, un’amante, un casinò all’Avana, contatti col governo e con i servizi segreti, è vicepresidente della “Suarez Sugar” su Howard Avenue, e gestisce una quantità impressionante di attività e di denaro. Ma il suo passato da boss non è poi così passato, perché Joe continua a godere di una certa fama nell’ambiente della mala, essendo l’unico personaggio di spicco che grazie ai suoi contatti politici veniva (e viene ancora) ricevuto e rispettato da tutti i boss: bianchi, neri e cubani.
“Joe Coughlin era il ponte tra quanto veniva annunciato in pubblico e il modo in cui lo si realizzava in privato”.
Ora lavora insieme a suo figlio come “consigliori” per la famiglia mafiosa dei Bartolo, gestendone gli interessi da Boston a Cuba e fungendo da intermediario con l’alta società.
Nell’ambiente criminale le voci circolano veloci, perfino all’interno delle carceri di massima sicurezza. Così Theresa Del Frisco, della banda di King Lucius, arrestata per l’omicidio di suo marito e catalogata come prigioniera numero 4773 nel carcere statale di Raiford, viene a sapere che qualcuno sta assoldando un killer professionista per freddare un bersaglio importante: Joe Coughlin, appunto. Qualcuno, nel frattempo, sta anche cercando di far uccidere Theresa. Ci hanno provato due volte: la prima sull’autobus per la prigione, poi nelle docce. Forse perché la donna è a conoscenza del proposito di far fuori Coughlin? Che dietro ci sia lo stesso burattinaio? Nel dubbio, Theresa si serve della giovane guardia Henry Ames per far arrivare un messaggio a Joe. Vuole incontrare il vecchio boss, e istruisce l’ingenuo Henry su come farsi portavoce della sua richiesta. Dovrà fargli un nome, e fare “in modo che sia chiaro che è una questione di vita o di morte. La sua e la mia”.
Chi è che sta cercando di uccidere Theresa in carcere? Chi, fuori, vuole assassinare Joe? Perché? Chi sono i veri nemici dell’ex boss mafioso? Cosa si nasconde dietro questa minaccia? Cosa c’è in ballo? Bisognerà scoprirlo prima che sia troppo tardi. Il tempo stringe.
Con questo movimentato e coinvolgente incipit, l’autore rapisce subito l’attenzione del lettore e lo catapulta all’interno di un thriller mozzafiato, in cui l’azione non è mai a discapito della profondità. Si tratta infatti di un romanzo anche complesso e struggente, a tratti dal respiro perfino introspettivo ed elegiaco, nel quale affiorano dilemmi etici come quello del protagonista, al contempo uomo malavitoso e premuroso padre di famiglia, molto protettivo nei confronti del figlio ch’egli intende preservare da quella stessa violenza e crudeltà che è stata (ed è ancora) parte integrante della sua vita criminale. Non è forse questo l’affascinante paradosso che vivono tanti “cattivi” di ogni tempo e luogo? Quante volte abbiamo visto mafiosi o spietati assassini mostrare profonda devozione religiosa e/o dedizione e affetto assoluti nei confronti dei loro cari e della famiglia? Non ci siamo forse chiesti come è possibile conciliare queste due istanze in apparenza così contraddittorie?
Joe Coughlin rappresenta una vita al limite, un uomo di fronte a uno specchio che combatte contro quel che resta della sua anima nera, come nero è questo sanguinoso romanzo di vendetta, un viaggio attraverso l’America democratica di Roosevelt e della Seconda Guerra mondiale, vissuto attraverso il punto di vista contraddittorio e scorretto di un uomo della malavita. Eppure leggendo questo romanzo finiremo per chiederci quale sia la vera differenza (e se ce ne sia una) tra un gangster che gestisca un sistema di corruttela, e un politico o il presidente di una grande impresa che invece si avvalga del proprio ruolo sociale per manovrare o manipolare interessi o vite umane.
Si tratta anche di un thriller amaro e crudele, in cui non c’è spazio per compiacimenti o assoluzioni, in cui ogni forma d’innocenza viene violata senza scrupoli, e le differenze sociali sono inquadrate e raccontate per quello che – in quel contesto storico – sono: generatori di brutalità e illegalità. È un thriller maschio, quindi, incentrato su un personaggio maschile, eppure a muovere il fili segreti dell’esistenza di questo uomo sono tre donne: la moglie scomparsa, l’amante segreta, e la misteriosa Theresa che lo avvisa che qualcuno vuole la sua morte.
In conclusione non ci pare azzardato affermare che Lehanne travalica e va ben oltre il genere, non fosse altro perché si dimostra capace di indossare con grande eleganza non solo i panni dell’autore di thriller, di poliziesco e di noir, ma anche quelli dello psicologo, del sociologo e dello storico americano. Lo stesso discorso si potrebbe fare dal punto di vista tecnico e stilistico, esaminando una narrazione intrisa di una forte componente letteraria, un linguaggio qualitativo e articolato che si svolge come su uno spartito narrativo pregiato, al punto che sarebbe interessante assaporarne la musicalità che trasuda nella versione in lingua originale.
Tra energia e potenza evocativa delle atmosfere e dei luoghi descritti, colpi di scena, caratterizzazione e sviluppo dei personaggi, il romanzo viaggia su un delicato (e mai banale) equilibrio generale all’interno del quale tutto trova una suo spazio vitale e una sua ragion d’essere. E soltanto una penna eccellente può riuscire in quest’impresa, degna di un autentico maestro della narrativa. Non è un caso che Lehane sia riconosciuto come un autore di straordinaria importanza, annoverato fra i grandi narratori americani viventi.
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