Con la sua ultima fatica letteraria Lisa Hilton chiude la trilogia avviata con “Maestra” che le valse, a detta della rivista “Glamour”, il premio di scrittrice dell’anno per il 2016. “Ultima” conclude la vicenda, riprendendola là dove si era interrotta nel 2017 con “Domina”, seguito di “Maestra”. Ancora una volta, a dominare il romanzo è la figura dell’affascinante, disinibita e spietata protagonista Judith Rashleigh.
Le circostanze l’hanno spinta a crearsi una nuova identità: la incontriamo quindi con il nome di Elisabeth Teerlinc. Nonostante questa accortezza, i suoi nemici le sono addosso, la braccano. Il racconto prende infatti il via con Judith-Elisabeth capace di sfuggire per miracolo a un tentativo di assassinio. Comunque, la giovane donna pare stretta in una morsa che non lascia scampo. Da una parte un boss della mafia russa, dall’altra un poliziotto corrotto di nome Ruggero Silva.
Anche Ruggero è determinato, scaltro, spietato. Costituisce un antagonista perfetto, una sorta di immagine speculare di Judith, caratterizzata quindi anche dalla stessa imprevedibilità. In un certo senso, la scrittrice pare avvicinare i due personaggi e poi mettersi in disparte, lasciandoli soli sulla scena. “Ultima” è, prima di tutto, la loro storia: l’impatto dei personaggi secondari è rilevante, ma decisamente minore.
Judith, sebbene in qualche modo attratta da Ruggero, deve cercare di sfuggirgli: ne va della sua vita. Può approfittare del fatto che i boss da cui Silva prende ordini sono interessati, per il momento, a tenerla buona. Hanno bisogno infatti della sua competenza e dei suoi contatti nel mondo delle gallerie d’arte per organizzare una truffa in grande stile. Mirano, più precisamente, a piazzare un falso d’autore per diverse decine di milioni di euro.
Pensare e agire in fretta: questa pare l’unica, flebile, speranza di cavarsela. Ancora una volta, a dispetto di tutto. E anche per questo “Ultima” si caratterizza fin da subito per un ritmo febbrile, con poco spazio per descrivere e ancor meno per riflettere. In larga parte del testo, che per lunghi tratti somiglia quasi a una sceneggiatura, è l’azione a farla da padrona.
Osservando con più attenzione però, pagina dopo pagina, si ha l’impressione di trovarsi di fronte a un meccanismo narrativo più complesso e raffinato: potremmo dire, a un racconto su due livelli. In superficie emerge un thriller a tinte molto forti, che tiene sempre viva l’attenzione del lettore, in attesa del prossimo colpo di scena.
Più in profondità, una trama sottile disegna un mosaico asciutto e cinico che raffigura, senza sconti, un agglomerato per lo più inerte di rapporti personali e sociali. Molto diversi sono i caratteri e le disponibilità economiche delle persone a vario titolo coinvolte ma, ovunque, pare imperare una comune freddezza.
Proprio questa freddezza fa come da sottotesto anche alla vicenda di Judith e di Ruggero, avvolgendo gli stessi protagonisti, forse anche loro malgrado. Il crudo realismo non sfocia mai in una critica aperta o in un commento ironico. Il narratore è rigorosamente terzo però, si intuisce, in qualche modo non soltanto consapevole, ma anche partecipe.
E non casuale sembra lo stridente contrasto di fondo tra la delicatezza dell’arte di Gaugin (proprio sul post-impressionista francese cade la scelta, per la realizzazione del falso) e l’uso che, anche dell’arte, viene fatto.
Anche le delicate pennellate dell’autore de “Il Cristo giallo” sembrano dunque poter essere violate, senza un’esitazione, per brama di denaro o di potere. Ma forse proprio nell’amore per l’arte, autentico in Judith, la protagonista saprà trovare quel qualcosa in più capace di offrirle una possibilità se non di redenzione, almeno di salvezza e di vendetta.
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