Torna Michel Bussi, con una delle sue spettacolari avventure. Si intitola “Un aereo senza di lei” ed esce come al solito per E/O, per la traduzione di Vittoria Vassallo. Ci sono, in questo lungo ma piacevole romanzo, tutti gli ingredienti che hanno fatto dell’autore francese uno dei più affermati scrittori di thriller a livello europeo. I rocamboleschi colpi di scena, i personaggi originali e capaci di gesti ai confini della realtà, la capacità di situare perfettamente la narrazione dentro la sua amata Francia, con particolare riguardo alla provincia, a quei luoghi spesso trascurati e poco battuti dal turismo, di cui però Bussi vuole mettere in luce le grandi bellezze. In più, in questa circostanza, c’è anche Parigi come teatro della vicenda, evento non proprio usuale per lo scrittore.
Tutto comincia da una tragedia aerea. Siamo sul volo Istanbul-Parigi e una tempesta coglie impreparato l’equipaggio, che pur tentando in tutti i modi di salvare la vita ai passeggeri, finisce per capitolare e non riesce a evitare lo schianto sui monti del Giura. Mont Terrible è il nome che Bussi sceglie per raffigurare il luogo dell’incidente. Arrivano appena possibile i soccorsi e si accorgono immediatamente che i passeggeri sono tutti morti. Tutti, tranne una piccola neonata, che viene miracolosamente tratta in salvo. Soltanto che a bordo dell’aereo di piccole neonate ce n’erano due e si capisce fin da subito che risulta assai problematico capire quale delle due si sia salvata. Inoltre, le due bimbe avevano a bordo i quattro genitori e bisogna risalire ai nonni, che appartengono a due famiglie che più diverse non potrebbero essere: i de Carville, famiglia parigina aristocratica e i Vitral, famiglia di piccoli commercianti della Normandia. Il romanzo è il tentativo di risolvere il mistero.
Il personaggio centrale che Bussi introduce è quello di un investigatore privato: Credùle Le Duc, ingaggiato dai facoltosi de Carville per sciogliere la matassa. Bizzarra figura che ha fatto bingo alla lotteria della vita, grazie alla sontuosa parcella garantitagli dai suoi committenti, si rivela un personaggio tanto furbo quanto improbabile. Condiziona la polizia, tenta di ingraziarsi anche i servigi della famiglia Vitral, assume un aiutante turco per i suoi lunghi, inutili e costosi viaggi nel Bosforo. Non troverà molto con le sue indagini, ma grazie a una sua intuizione sarà possibile risolvere l’enigma. Fanno da spalla a Le Duc il fratello di Emilie Vitral, Marc e la sorella di Lyse-Rose de Carville, Malvina, che non erano sull’aereo e che cercheranno di portare l’acqua al proprio mulino. Oltre alla neonata stessa, che viene inizialmente battezzata Lylie, facendo la crasi dei due nomi originari.
Confesso di essere un grande appassionato di Bussi e quindi ho divorato anche questo romanzo. In ogni caso, credo che il libro sia pienamente riuscito e possa soddisfare anche coloro che non conoscono l’autore. Come tutti i thriller di Bussi, insieme alla suspense ci si diverte di gusto perché le sue storie e i suoi personaggi sono irresistibili. Le Duc è una sorta di Poirot che non disdegna alcol e belle donne, ma può anche essere che il paragone mi sia stato dettato dai suoi frequenti viaggi in Turchia che mi hanno fatto ricordare l’Orient Express. Le donne di Bussi sono come al solito tenaci, caparbie e nettamente superiori agli uomini, da ogni punto di vista (e forse questo, a ben vedere, è una delle cose che mi piace di più dello scrittore francese), anche se spesso la vita riserva loro le situazioni più ingiuste e dolorose. Gli uomini sono invece tipicamente (tranne eccezioni) fanfaroni e quasi buoni a nulla.
Tra le numerosissime immagini che questo libro evoca, al di là delle stupende descrizioni della provincia francese e della sua umanità, che da sole valgono il romanzo (non voglio toccare i mostri sacri, ma Simenon sarebbe felice), mi è venuta in mente, riflettendo sulle enormi peripezie dei protagonisti in stile “Sliding doors”, una famosa canzone di un notissimo cantautore italiano che riflette amaramente sulla difficoltà nel dare un senso a quella che spesso risulta essere la misera esistenza umana: “siamo qualcosa che non resta, frasi vuote nella testa e il cuore di simboli pieno”. Con una bella nota di speranza finale, perché quella in Bussi non manca mai e forse è proprio quella che lo fa amare a tanti.
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