Ricordo ancora con una certa nostalgia la lettura de La verità sul caso Harry Quebert, romanzo d’esordio (in Italia) di Joël Dicker. Rammento quell’avidità mentale che, come una fame biologica, non trova sazietà finché non è soddisfatta, quella suggestione che coglie quando non vorremmo mai chiudere il libro oppure, al contrario, lo facciamo per procrastinarne l’adrenalina in virtù dell’assioma secondo cui l’attesa del piacere è essa stessa piacere.
Come spesso accade, certi picchi narrativi difficilmente diventano nuovamente raggiungibili, e le ragioni, soggettive e oggettive, possono essere le più varie. Spesso è un concorso di responsabilità, una sorta di cinquanta e cinquanta nel magico e reciproco scambio che è il rapporto tra scrittore e lettore. È matematicamente impossibile sbilanciarsi. Dipende dai limiti dello scrittore o dalle eccessive aspettative di chi legge? La sostanza non cambia: la sensazione è che la vetta sia lì, a pochi passi, ma che si difetti in qualcosa per conquistarla ancora una volta.
Per quanto mi riguarda, è quello che ho sperimentato con i successivi romanzi di Joël Dicker, e se quest’oggi mi poneste la domanda: Un animale selvaggio, sua ultima opera, uscita poche settimane fa in libreria e balzata in testa alle classifiche, può essere considerato al pari de La verità sul caso Harry Quebert? La mia risposta è ancora no, ed è con malcelata titubanza che porgo il fianco, perché si tratta comunque di una storia ottimamente costruita, in cui ciascun protagonista gioca un ruolo di fondamentale importanza che si incastra perfettamente nel mosaico della trama.
2 Luglio 2022. La narrazione si apre a Ginevra, dove in una prestigiosa gioielleria è in atto una rapina a mano armata da parte di due individui che, in ogni singolo movimento, appaiono metodici e organizzati fin nel minimo dettaglio.
In maniera alternata il piano temporale narrativo si sposta ad alcune settimane prima l’atto criminoso e procede verso quella fatidica data. Due coppie più o meno coetanee e con figli si conoscono a un party, nasce un’amicizia e iniziano a frequentarsi. Via via che i componenti, com’è lecito che sia, apprendono l’uno dell’altro le abitudini di vita e della quotidianità, e noi con loro nel corso della lettura, inizia a delinearsi la convinzione che niente sia come sembra, che ciascuno di essi celi intimamente lati oscuri occultati quasi a costo della vita. Segreti che diventeranno sempre più ingestibili in un effetto valanga che non risparmierà nessuno.
Cominciamo col dire che l’autore svizzero è uno di quegli scrittori che o si ama o si odia. Sebbene viaggi a una media di circa 500 pagine a romanzo, il suo stile non è prolisso. Dicker indugia poco nell’illustrazione introspettiva dei personaggi, nella descrizione dei paesaggi e delle varie ambientazioni. Il fulcro delle sue trame è l’azione, il susseguirsi di fatti in un ciclo pressoché continuo e vertiginoso, in eventi spiazzanti che rigo dopo rigo, pagina dopo pagina, vengono riportati in modo schietto, senza soluzione di continuità e, passatemi il concetto ma nel senso più positivo di esso, ai limiti del didascalico.
Si chiese allora se fosse possibile ammirare e detestare qualcuno per le stesse identiche ragioni. Non era forse la definizione stessa dell’invidia?
È la riflessione di uno dei personaggi, probabilmente l’emblema dell’intera vicenda. Fare di tutto per ottenere (e mantenere) uno stile di vita benestante, che ruota attorno alla ricchezza e alla lussuria, al non rinunciare a privilegi, sfarzi e dissolutezze che, per chi li sfoggia, sono a tutti gli effetti acquisiti di diritto. E qual è il motore se non, appunto, l’invidia, per la quale non è ammesso ritrovarsi un passo indietro rispetto agli altri. L’invidia, che può trasformare un avido essere umano in un animale selvaggio.
Joel Dicker è questo.
Prendere o lasciare.
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