Fastidio. Può questa sensazione essere la caratteristica migliore di un libro che, nei sentimenti contrastanti che genera, trova la chiave per inchiodare il lettore fino all’ultima riga?
Lei si sveglia nella più totale indeterminatezza: si chiede se è ancora viva, dove sia, o quale sia il suo nome. Poi, dalle fitte di un lancinante mal di testa, cominciano a emergere i ricordi: lei è Julia, una scrittrice che vive a Reykjavìk e che per trovare ispirazione per un testo sull’eroina di una saga Islandese è andata con il marito Giò al fiordo del Hvalfjörður. La giornata fredda, il tempo pessimo, e la gita su un isolotto sperduto e disabitato hanno provocato una lite, al termine della quale Julia, in un improvviso scatto di rabbia, ha abbandonato Giò senza riparo e senza la possibilità i tornare sulla terra ferma.
Presa dal rimorso Julia torna a cercare il marito, ma Giò sembra essersi dissolto nel nulla: eppure non sa nuotare bene, sull’isolotto non c’erano altre barche, ed è quasi impossibile che qualcuno l’abbia soccorso.
Julia denuncia la scomparsa del marito, e inizia la sua personale indagine parallela. Forse Giò non è morto, forse è lui che le invia messaggi sul cellulare, forse è l’ombra che vede nel giardino: e forse deve convincere la polizia che lei non ha nulla a che fare con la sua scomparsa.
Fastidio, si diceva. Un fastidio profondo, che sfora nel disagio, perché fin dalle prime pagine il lettore si rende conto che Julia mente, con disinvoltura, convinzione se non esaltazione: la sua è la voce narrante, suo il punto di vista, ma nella costruzione del castello di bugie che Julia erige attorno alla sua storia si insinua il dubbio che – forse – quello che dice non è tutta la verità, o meglio, è una verità parziale, flessibile, fluttuante. Julia irretisce il lettore con la sua storia, è una affabulatrice che governa le parole e il loro ritmo – del resto è una scrittrice, e ha ben chiaro il loro potere – si autoassolve da ogni errore: eppure chi legge non può che restare ammaliato da suo racconto, che è una manipolazione distorta ma affascinante della realtà:
“Raramente mento per egoismo, quando invento qualche menzogna il mio primo obiettivo è la felicità e la soddisfazione degli altri…. Non è onesto mentire. Questo l’ho imparato. Ma quando la verità ha come conseguenza la distruzione, è giustificabile essere disonesti e dire cose che suonano meglio della verità. A volte mento per impreziosire l’esistenza, per rendere il mondo più misterioso e avvincente”.
Il romanzo è un lungo viaggio in una sorta di selva oscura che è la mente di Julia: tra l’evidenza dei fatti dell’indagine poliziesca, flashback familiari, congetture, memorie distorte Snæbjörn Arngrímsson costruisce un raffinatissimo e tagliente thriller psicologico che tocca temi quali le relazioni familiari, la difficoltà della vita di coppia e dell’intimità, ma anche della noia del quotidiano e della menzogna come via di fuga, delirante forse, ma esaltante.
L’Islanda è una cornice straordinaria per questo romanzo magnetico, e nei suoi chiaroscuri, nelle zone industriali dismesse, nel deserto delle brughiere e dei fiordi innevati, si riflettono le sensazioni profonde che una scrittura pregevolissima, tradotta con sensibilità da Silvia Cosimini, regala.
Un castello di bugie è un romanzo inaspettato, profondo e magnetico, che non perde mai di vista la tensione costante del thriller e la profondità dell’analisi psicologica e destinato con merito ad essere tra i migliori libri nordici usciti in questo periodo.
L’autore
Snæbjörn Arngrímsson (1961), islandese, scrittore, editore e traduttore pluripremiato, ha scritto tre romanzi gialli per ragazzi, vincitori dell’Icelandic Children’s Book Award (2019) e del Reykjavík Children’s Literature Prize (2020). Un castello di bugie è il suo esordio nel thriller.
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