La guerra è finita, la Germania è sconfitta. Anche Bernie Gunther, investigatore privato, è sconfitto. Un passato nella Kripo, la polizia criminale e, più tardi, in un campo di prigionia. Come i precedenti capitoli della trilogia di Philip Kerr (“Violette di marzo” e “Il criminale pallido”) ci hanno raccontato, Gunther è stato tutt’altro che un sostenitore del regime nazista, anzi ha creato parecchi problemi, con la sua ostinazione nella ricerca della verità.

Ora però, come tutti i suoi connazionali, e in particolare i berlinesi, si trova a mendicare carbone, al mercato nero, per non patire il freddo. La moglie Kirsten, lo ha appena scoperto, si concede ai soldati americani, affinché entrambi possano sopravvivere dignitosamente, per quanto possibile.

Forse anche per questo Gunther accetta di intraprendere una difficile indagine a Vienna, per cercare di salvare la vita a Becker, sua vecchia conoscenza, che rischia di essere condannato a morte per omicidio. Becker è tutt’altro che uno stinco di santo, ma quella faccenda non quadra.

Malgrado le difficoltà, il protagonista e lo stile narrativo non perdono la vena amaramente scanzonata e ironica, che fa tornare in mente Raymond Chandler e il suo Philip Marlowe. Prendiamo ad esempio il primo incontro-scontro di Gunther con Shields, militare americano che finirà per fargli compagnia in quest’indagine.   

Gli staccai le mani dalla mia giacca e mela rimisi a posto. Andando verso la porta, mi fermai e dissi: «Questa nuova cooperazione con la Polizia militare americana arriva al punto di far rimuovere il segugio che mi ha messo addosso?». «C’è qualcuno che ti segue?». «C’era, finché l’altra notte non gliele ho date». «È una città strana, Gunther. Forse era un finocchio». «Dev’essere per questo che ho pensato che fosse uno dei vostri. È uno che si chiama John Belinsky».

E in quest’atmosfera di esibito disincanto dietro cui si cerca di nascondere il dolore per la recente tragedia, individuale e collettiva, Gunther non ha perso, almeno del tutto, il suo spirito d’iniziativa coraggioso, a suo modo donchisciottesco.

Così insieme a Marlowe tornano alla mente anche altri protagonisti, in questo caso di un film: “Ronin”, per la regia di John Frankenheimer, nel 1998. Anche in quel caso, si tratta di reduci: non della seconda guerra mondiale, ma della guerra fredda. Anche in quel caso, sia pure in modo più sottile, si tratta di sconfitti: di individui che la storia sembra volersi lasciare alle spalle.

E anche in quel caso è proprio il rifiuto ostinato di piegarsi all’ineluttabilità degli eventi che ci coinvolge, sempre più, in una vicenda che non ha forse una vera e propria destinazione, ma è impregnata dell’emozione del viaggio. Ed è sempre Kerr, attraverso il seguito dello scambio di battute tra Shields e Gunther, a fotografare questo senso di straniante eppure orgoglioso smarrimento:  

Shields scosse la testa, e i suoi occhi esprimevano innocenza. «Mai sentito nominare. Lo giuro su Dio, non ho mai dato ordine di seguirti. Se qualcuno ti ha pedinato, non ha niente a che fare con questo ufficio. Sai cosa dovresti fare?». «Mi stupisca». «Torna a casa, a Berlino. Non c’è niente, qui, per te». «Mi piacerebbe, solo che non sono sicuro che ci sia qualcosa per me neppure là. È questa una delle ragioni per le quali sono venuto qui, ricorda?».

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Articolo protocollato da Damiano Verda

Genovese, classe 1985, ingegnere informatico, appassionato di scrittura. There’s four and twenty million doors on life’s endless corridor (ci sono milioni di porte lungo l’infinito corridoio della vita), cantavano gli Oasis. Convinto che anche giocare, leggere, scrivere possano essere un modo per tentare la scommessa di socchiudere qualcuna di quelle porte, su quel corridoio senza fine.

Damiano Verda ha scritto 56 articoli:

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