Sono già moltissimi (più di venti) i romanzi del famoso autore francese Léo Malet tradotti in italiano da Fazi Editore. Il 27 giugno 2019 si aggiungerà all’elenco Una bambola per Nestor Burma che farà parte della collana “Darkside”.
Su Malet, lo sappiamo, sono state scritte parole importanti da parte di grandi penne. È stato definito maestro e genio del noir e del polar. Corrado Augias, nel ricordare come Malet sia ritenuto “non a torto migliore di Georges Simenon”, ha rinverdito l’eterno (ormai pavloviano) paragone con il connazionale, considerato prima di lui e di André Héléna il massimo esponente del poliziesco francese.
Si rischia, dunque, di essere banali nel tratteggiare in poche righe la biografia di un autore dal peso specifico così rilevante e dal vissuto così intenso: orfano, proletario, surrealista sui generis, internato in un campo di concentramento, poeta, cabarettista e cantante, anarchico “conservatore” (che – ci sia permesso – si ribella alla sostanza conformandosi alla forma), scrittore abilissimo di gialli e noir ma anche di cappa e spada, genio del pulp e dell’hard boiled, insignito del “Gran premio della letteratura poliziesca” nel 1948 e del “Gran Premio dell’umorismo nero” nel 1958, eppure rivalutato e apprezzato più da postumo che da vivo.
Una bambola per Nestor Burma assume una collocazione particolare all’interno della serie dedicata all’ispettore Burma. Risulta essere, infatti, un’opera del 1971, che quindi chiuderebbe questa serie e addirittura sarebbe successiva di ben undici anni al precedente episodio che è Il cadavere ingombrante del 1959. Vero è che fu pubblicata originariamente proprio nel ’71 a Parigi, dalla Fleuve Éditions, département d’Univers Poche, col titolo di “Nestor Burma court la poupée”, ma è altrettanto vero che questo romanzo debba considerarsi una riscrittura di “Coliques de plomb”, approntato invece nel 1948 (nel pieno delle inchieste di Nestor Burma, le quali infatti vanno dal 1943 al 1959, tutte tradotte di recente in italiano da Federica Angelini, per Fazi Editore).
In una Parigi cupa e sorniona, sferzata da vento e pioggia, seguiamo il detective Burma (direttore dell’agenzia d’investigazioni private “Fiat Lux”) recarsi nella villa di un ex medico senza scrupoli, un tizio di nome Mauffat, reo di aver praticato un aborto mal eseguito, che ha provocato la morte di una giovane donna. L’investigatore – ingaggiato dai nonni della vittima – ritiene di avere ben poche chance di risolvere il caso. Tuttavia, dopo aver raggiunto quell’isolata villa di Boulogne, inizia a sospettare che in quel luogo stia per accadere qualcosa di grosso. Si apposta per spiare e scopre che i suoi presentimenti sono esatti: un orribile individuo dal volto sfigurato compie una strage, nella quale cade vittima lo stesso Mauffat.
Come fare, ora che l’assassino è stato a sua volta assassinato?
Dopo quest’incipit in media res l’autore ci riporta indietro di un anno, per rivelare i retroscena e gli antefatti attraverso cui si è approdati a quel punto di non ritorno, a quell’intricata matassa che dovrà essere dipanata proprio da Burma nella seconda metà del romanzo.
Questa struttura dinamica ben si attaglia a un giallo/noir molto agile ed efficace, seppure con le caratteristiche della narrazione dell’epoca, fatta d’indagini vecchio stile e atmosfere retrò, elementi che oggi appaiono superati e perciò rischiano di apparire come limiti.
L’autore omette qualsiasi spiegazione didascalica o superflua, pretendendo dal lettore uno sforzo di riflessione e di concentrazione finalizzato a comprendere appieno il dipanarsi della trama. La scrittura e il linguaggio sono misurati, essenziali e diretti. Nonostante un nucleo narrativo abbastanza compatto e crudo, a tratti si ha come la sensazione imprevista e improvvisa di trovarsi dentro un fumetto noir, tratteggiato a matita e con un retrogusto fiabesco.
I personaggi sono sempre credibili e mossi da sentimenti quasi mai puri: l’avidità, l’ambizione, l’ingordigia, l’avarizia, il sesso. Il detective Burma s’impone come personaggio molto riuscito, anche grazie al suo cinismo ironico e umanitario, alla sua schiettezza genuina. Burma è astuto, possiede uno spiccato senso dell’umorismo e un intuito acuto, ma è anche un uomo semplice e insofferente alle regole. Burma è in qualche modo anche un meschino, nella misura in cui il suo spirito anarchico/rivoluzionario soccombe di fronte alla pigrizia e al cinismo, che lo costringono a rimandare sempre quella rivoluzione che invece andrebbe combattuta oggi, o addirittura ieri. Poi, un giorno, la “rivoluzione mai combattuta” finirà, si presenterà alla porta un ufficiale giudiziario inviato dall’Esattoria, e il giudizio di Burma sarà tranciante:
«Merda! Ma cosa fanno nel nostro quartiere tutti quei commercianti arrabbiati, i sinistroidi, gli infuriati e gli anarchici del cavolo targati ‘68? Dormono? Cosa aspettano a far saltare l’Esattoria con il plastico?»
«In ogni caso ormai sarebbe tardi».
«Sì, è vero».
Non è mai troppo tardi invece per leggere questo bel romanzo di Malet, che non è forse il miglior giallo della serie di Burma, ma di sicuro si farebbe apprezzare in qualsiasi libreria.
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- Malet, Léo (Autore)