Vincenzo Arcadipane, separato, padre distratto, munito di un cane a tre sole zampe di nome Trepet e afflitto da una insolita dipendenza per i sucai (sciolti, però – andate pure a controllare voi cosa siano), di professione inquirente (così non devo approfondire il ruolo, il grado e il commissariato, dettagli che trovo sempre piuttosto oziosi) viene incaricato di indagare sulla morte di una donna, pestata a morte all’uscita di una fermata della metro di Torino. Entro pag. 50 abbiamo un sospetto, che diventa indagato e di lì sottoposto a fermo e misura cautelare nelle successive 3 pagine e mezzo. Insoddisfatto il lettore, molto perplesso l’investigatore. Troppo troppo facile, questa cattura in un tempo che la classe politica locale sbandiererebbe come fiore all’occhiello della sua efficienza, non convince neppure il suo artefice. Qualche cosa non torna, o meglio, torna talmente tutto che… non è reale.
Ecco che Davide Longo, scrittore osannato da Alessandro Baricco, docente non a caso alla Scuola Holden, penna finissima e appuntita, parte da questo assunto per dipanare una storia che appoggia la trama sul rapporto tra reale e virtuale. Ma non è, attenzione, una storia di crimini informatici organizzati o di grandi complotti di fake news. Questa è una storia piccola quanto profondissima, atroce nel suo essere parte di un mondo, di una fetta di società irreprensibile, indulgente e molto open minded, ossia proprio di quel mondo un po’ privilegiato, un po’ ancora borghese (per quanto possa ancora stimarsi questo termine) dove tutto ti aspetteresti tranne incursioni nel dark web.
Ne Una rabbia semplice lo scrittore prepara un romanzo millefoglie, a strati gustosi, con intermezzo di una crema delicatissima costituita dai rapporti umani importanti e veri che Arcadipane – soggetto incapace di destreggiare le parole, un classico mugugnone sabaudo che ti abbracceresti appena lo incroci – ha intessuto nei romanzi precedenti e che si rivelano ancora solidi. Va a cercarsi Corso Bramard, protagonista amatissimo dei due romanzi precedenti, e anche Isa Mancini, la nostra Lisbeth Salander, al confino entrambi l’uno per ragioni di salute e l‘altra di eccesso di autodifesa.
Gli strati ricalcano le sezioni di quell’immenso iceberg semi-sommerso che è il mondo della Rete: c’è il primo, appannaggio di tutti noi, anzi forse soprattutto dei cinquantenni, che lo adoperano con goffaggine ma ben felici di avere in dono anonimato e privacy, e lì Davide Longo inserisce le pagine più frizzanti, più divertenti, quelle in cui ridiamo di gusto alle (dis)avventure di Arcadipane nei siti di incontri.
C’è il secondo, più deep, meno smaccatamente alla portata di tutti, dove niente è come appare, soprattutto se confrontato alla mondo “reale”, quello delle strade e dei mezzi di trasporto, delle ragazzine belline con lo zaino portato su di una sola spalla ed i genitori progressisti.
E poi c’è la laguna fetida, limacciosa ed immobile del dark web, nei cui meandri si cela la soluzione di questo noir (condividiamo tutti la convinzione che quando attacca e sviscera un tema così attuale nella nostra società, anche il giallo e il thriller upgradano a noir, vero?), disseminato ad arte di piccole false piste, sopra al quale Davide sparge il suo pensiero ma soprattutto dissemina personaggi-cameo, costruiti così bene da camminare nella vicenda in autonomia, indipendentemente dal legame con investigatori e assassini: Germana che affitta una stanza ad Arcadipane e gli lesina le marmellatine se lui non scova chi le rubi la spesa; Ariel che esercita come psicoterapeuta ma è flippatissima di suo, oltre che sciancata, e tributa al ns investigatore frasi capolavoro tipo “non si lanci in attività spericolate” quando lui riempie uno dei suoi silenzi con un timido “stavo riflettendo” (ha decisamente una lametta da barba al posto della lingua).
Ecco questo è sicuramente il primo strato del libro: i tre gironi danteschi del web.
Ma chiacchierando con l’Autore in una intervista video che mi ha concesso, gli strati sottostanti sono emersi bene e hanno reso ancora più complesso e piacevole questo romanzo. Davide è un insegnante, un padre, un uomo che dal contatto coi ragazzi ha tratto sempre spunti di riflessione profonda. I giovani, che ai suoi occhi sono il centro a cui noi adulti dobbiamo rivolgere speranze e sforzi. Ma come sono questi giovani? Fondamentalmente intimoriti, ripiegati sul privato, impauriti all’ipotesi di venir feriti. Cosa interessa loro, più che altro? Il giudizio dei coetanei. E in un gioco dove cause ed effetti si scambiano di posto, la logica dei “like”, che per loro è così importante, è solo un precipitato del fatto che in rete si possono indossare maschere e per esse anche essere apprezzati.
Cosa manca, però, a questa utenza del web così fragile, sballottata ma al contempo crudele’
Manca la terza dimensione, il contatto vero, l’empatia per cui si possa percepire una sofferenza altrui anche soltanto “vedendola” attraverso lo schermo del device, che poi è esattamente ciò che ci insegnano le neuroscienze e la psicologia sociale a proposito dell’assuefazione alla violenza.
E’ un giallo, con dei morti e uno o più colpevoli. E’ un polar, perché ci sono investigatori, organizzati in squadra o cani sciolti. E’ un noir, perché c’è un tema atroce, attuale e graffiante come i challenge giovanili.
Ma è soprattutto ottima scrittura, meravigliosi dialoghi più che verosimili. Piccole tristezze e grandi temi.
Consigliato alle mamme, ai papà, ai fratelli e alle sorelle di questi giovani così apparentemente bravi, inquadrati, soddisfatti, che forse sotto vivono l’inferno.
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Articolo protocollato da Alessia Sorgato
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