Una stella senza luce di Alice Basso (Garzanti, 2022) è il terzo volume della serie con protagonista Anita Bo. Siamo in quel di Torino, anno 1935. Anita, dopo aver lasciato il lavoro di collaboratrice nella tabaccheria di famiglia, trova occupazione come dattilografa presso il giornale Saturnalia (che pubblica racconti gialli) diretto da Sebastiano Satta Ascona.
Anita fa parte della casa editrice da soli tre mesi, ma ne è già diventata la mente creativa; invece Sebastiano si occupa di mettere in bella forma le avventure del commissario Bonomo, integerrimo e ligio al regime. Anche se la pensa in tutt’altro modo, essendo figlio di Rodolfo Satta Ascona , anziano piantagrane sovversivo. In quel periodo però è pericoloso esternare la propria contrarietà alle mosse del Duce. E anche i crimini commessi: tutto deve apparire lindo e pinto, la delinquenza non esiste o se esiste è robetta da ladri di galline. Così i due s’inventano un escamotaggio (nel 1935 italianizzare i termini esteri era d’obbligo) e narrano, sottoforma di racconto, le malefatte realmente avvenute in città. Quelle di cui la Polizia non si occupa perché ‘son cose da poveracci.’ Mentre Anita e Sebastiano quei casi non li hanno nel frattempo solo raccontati, ma anche risolti.
Un bel giorno alle soglie della casa editrice capita un certo Leo Luminari, regista di fama ormai un poco appannata. Noto nel mondo del cinema torinese, prima che Roma scippasse alla città divi e celluloide. Luminari è tornato con un progetto grandioso: restituire a Torino le sue insegne cinematografiche. Scegliendo proprio Sebastiano per redigere la sceneggiatura del film. Quando però si nomina Sebastiano il nome di Anita si fa sovrapponibile: i due sono un sol corpo quando si tratta di partecipazione editoriale. Tra occhiatine di sguincio, rossori non troppo improvvisi, e palese attrazione, la coppia – peraltro fidanzatissima con terze persone: la figlia d’un pezzo grosso del fascio, lui e il figlio di agiati commercianti, lei; la coppia, si diceva, è entusiasta del progetto. Fino al momento in cui a Sebastiano balena un’idea tutt’altro che bislacca: e se Luminari fosse un agente dell’Ovra e volesse saperne di più sui racconti che sono descrizione minuziosa di fatti reali? I due si propongono di agire con cautela, accettando l’impresa che il Maestro del cinema propone.
Accade però che il medesimo, dopo appena un giorno di provini sbilenchi, venga ritrovato nella stanza della pensione Tersicore con un pugnale nel petto. Un cadavere vero per vere indagini. E i nostri Sebastiano e Anita cominciano a fiutare piste.
Una stella senza luce è, a dispetto del titolo, fantasmagoria letteraria purissima. C’è luminosità fino a scottarsi: Alice Basso possiede una penna che scrive da sola, ci dirà poi dove l’ha acquistata, e certi termini come tualèt (toilette) o chiffòn (tradotto in scifforio) a me hanno ricordato il ginz (per jeans) del Queneau di Zazie nel metrò. E lo sgrat sgrat, il suono onomatopeico della paglietta che sfrega la pentola, quello del vroom vroom dell’Icaro Involato, sempre a firma Queneau.
La scrittura di Basso è un merletto d’ironia, boutade, battute a decorare un periodo oscuro della storia italiana. Periodo adoperato soltanto a mo’ di sottofondo, grazie alla genialità dell’autrice. Basso fa vibrare altre corde: sposta la riflessione del lettore sull’attualità di certe pratiche d’allora che ancora oggi, purtroppo, stanno ai disonori della cronaca.
Il romanzo rende felice sia il cinefilo, sia il lettore che predilige l’ottima forma a sostenere un gran contenuto, e chi va meno per il sottile e vuol godersi una storia priva di spazi vuoti. Compressa com’è nel carattere indomabile e straordinario della protagonista, e delle voci a circondarla. Nella storia si ascoltano voci, si vedono azioni: sembra di stare al cinema. Una stella senza luce è un romanzo ed un film.
Alice Basso è un fuoco d’artificio letterario , la sua brillantissima verve riesce a supportare argomento serio come un indagine per omicidio senza mai andare sopra o sotto le righe. Senza mai un calo, un momento di stallo.
PS: mi concedo lo sfizio di credere che ‘Leo Luminari’ sia la traduzione di ‘Les Lumière’, intesi come i fratelli. Epperò lo sfizio è mio e lo gestisco io, santa polenta coi funghi!
Recensione di Gioia Verni.
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Articolo protocollato da Gioia Verni
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