
A distanza di quattro anni dall’uscita negli Stati Uniti, Longanesi pubblica “Win” di Harlan Coben, spin-off della più famosa serie di Myron Bolitar, procuratore sportivo con il pallino dell’investigazione, già agente FBI. Win sta per Windsor Horne Lockwood III, grande amico di Myron e personaggio dai tratti assai singolari, che sicuramente meritava un romanzo a sé e, fatemi dire, ne meriterebbe anche altri, data la riuscita del primo.
Nel cuore di Manhattan, al Beresford, e precisamente in un piccolo appartamento dell’ultimo piano del celebre palazzo che costeggia Central Park, viene trovato assassinato quello che ha tutta l’aria di essere un accumulatore seriale, visto che la sua angusta dimora è completamente intasata da cianfrusaglie. Si scopre in breve tempo che la vittima era un noto personaggio degli anni Settanta, Ry Strauss, al centro della rivolta studentesca di quel periodo. Si scopre anche che, in quell’appartamento, era conservato un vero Vermeer, originariamente rubato proprio alla famiglia di Win. Comincia così un tuffo nel passato che ricostruisce alcune delle vicende di quegli anni dalla voce dei protagonisti ancora in vita, a partire in particolare da un attentato (frutto della fantasia di Coben) avvenuto in Jane Street, nel cuore del Greenwich Village. Non tutto, ovviamente, risulterà essere accaduto nelle forme che la storia ci ha tramandato.
Win è un romanzo godibilissimo, scritto molto bene, come abitualmente succede con Coben, e costruito in modo perfetto, con un finale travolgente che risucchia letteralmente il lettore in una girandola di eventi mozzafiato. Si ricorda spesso che Coben è uno degli autori più “saccheggiati” da un punto di vista di serie trasmesse a partire dai suoi romanzi (una volta si sarebbe detto da un punto di vista filmografico), ma a me piace sottolineare che la sua è una scrittura pregevole anche dal punto di vista letterario.
Torno dopo sulla vena “nostalgica” in termini di contenuti che ha portato Coben a rispolverare gli anni Settanta, ma, per quanto riguarda lo stile, fatemi dire che Win deve moltissimo a quelli che vengono comunemente chiamati “scrittori americani postmoderni” (De Lillo mi viene in mente subito, se no Palahniuk, ma anche molto Bret Easton Ellis, perché Win è il lato pulito di Patrick Bateman in “American Psycho”). Certo, Manhattan ha un peso in questo, così come il fatto di mescolare fatti storici realmente accaduti e avvenimenti di fantasia (anche se in questo il vero maestro è per me James Ellroy).
Windsor Horne Lockwood III, altrimenti detto Win, è un personaggio che ho adorato. Era già adorabile come spalla di Bolitar, ma messo in primo piano diventa fantastico. In lui convivono un disincanto totale al confine del cinismo, che però, essendo consapevole e manifesto, diventa assolutamente apprezzabile e una gentilezza genetica che nonostante lui combatta a colpi di politicamente scorretto, emerge nei momenti decisivi e lo colloca, senza dubbio alcuno, nel campo dei giusti.
Infine, ultimo ma non per importanza, gli anni Settanta. Come Coben stesso dice in più di una intervista, è stata una delle motivazioni che lo ha spinto a fare questo mini-spin-off. Se dovessi sintetizzare ciò che emerge dallo sguardo di Coben agli anni Settanta direi complessivamente “affetto”. Ma potrebbe darsi, e mi scuso per questo con i nostri cari avventori, che in questo giudizio io sia influenzato dalla mia visuale, che nutre per quegli anni una totale e assoluta predilezione. Affetto che non è nostalgia o rimpianto, come forse alcuni potrebbero credere. Piuttosto, ritengo che il tutto nasca da una profonda curiosità, che, una volta soddisfatta, mescola a questa distacco e fascino. Qualcosa che è irrimediabilmente finito, che è stato inferiore alle attese forse, ma che ha prodotto un’esplosione creativa grazie alla quale noi, oggi, ancora viviamo un poco di rendita. Più il Vietnam visto dai ragazzi americani di quel tempo, che noi per quanto ci sforziamo di comprendere non capiremo mai fino in fondo. E tutto questo, direi, merita assolutamente una lettura.
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