Morte nella steppa è il primo capitolo di una trilogia pluripremiata e amatissima in Francia con protagonista il Commissario Yeruldelgger Khaltar Guichyguinnkhen. Vero e proprio caso editoriale, la serie creata da Ian Manook ha replicato il successo anche in Italia al suo comparire sul mercato editoriale nostrano nel 2016 e da poco Fazi ha completato la pubblicazione anche dell’ultimo volume (La morte nomade, dopo il precedente Tempi selvaggi). Avviamo oggi al Thriller Café la recensione di tutti e tre i romanzi, partendo ovviamente dal principio.
In Morte nella steppa il commissario dovrà fare i conti con un triplice omicidio, in cui sono coinvolti dei cinesi evirati durante un rituale sessuale ammantato di simbologia nazista, e contemporaneamente Yeruldegger seguirà un altro caso, riguardante il rinvenimento del cadavere di una bambina sepolta, probabilmente viva, con un triciclo, in un’indagine particolarmente dolorosa per il ricordo costante della figlia morta in tenera età.
Il successo di questo romanzo e della trilogia dipende da molti fattori, che si possono ricondurre essenzialmente a tre aspetti.
La trama è un intreccio complesso, articolato, da autentico romanzo d’azione che stempera il cinismo e la violenza con lampi di ironia e umorismo: il tutto costruisce un’intricata rete di indagini, false piste, uomini e donne spietati, interessi economici e ideologie estremiste sino a un disvelamento finale inatteso e ben riuscito che si legge con grande rapidità.
L’intreccio quindi è ben riuscito, articolato ma lineare, ma non sarebbe probabilmente il motivo principale che ha reso questa trilogia un caso: il vero motivo di interesse è piuttosto legato all’ambientazione e al protagonista, il Commissario Yeruldelgger.
La Mongolia è una terra lontana e – per il lettore occidentale – è probabilmente più un luogo dell’immaginario permeato da luoghi comuni che non un paese reale: in Morte nella steppa si resta spiazzati dal racconto di un paese grande due volte e mezzo la Francia con solamente tre milioni di persone, di cui circa il 40% vive in una sola grande città, ricchissimo di giacimenti minerari di terre rare, zona sismica ad altissimo rischio. E’ un racconto che alterna – con una prosa evocativa e struggente – la straordinaria bellezza degli spazi aperti e della vita nomade profondamente ancorata al rapporto con la natura e a una cultura sciamanica affascinante, allo squallore della forzata urbanizzazione di larga parte della popolazione nomade, una diaspora dalla quale nascono miseria, perdita di identità, marginalità. A questo si aggiunge l’aggressività delle multinazionali minerarie che devastano il territorio, i gruppi nazisti, i residui dell’occupazione sovietica e i McDonald , razzismo e povertà. Una narrazione straordinariamente affascinante.
Su tutto spicca la figura di Yeruldelgger: strano commissario, attorniato da poche figure comprimarie piuttosto ben riuscite anche se a volte un po’ sopra le righe. Ricorda un po’, per ammissione dello stesso autore, quei poliziotti da hard boiler, duri, disillusi, che vedremmo bene bel Bronx o nei sobborghi di una metropoli statunitense. Yeruldelgger è però permeato da una cultura sciamanica nella quale la morte, la fedeltà, la vendetta hanno una nozione diversa del nostro modo di pensare occidentale e questo arricchisce di sfumature differenti ed inaspettate il romanzo.
Yeruldelgger è un uomo antico, che trattiene i propri demoni interiori , fedele a un rigido codice comportamentale non sempre comprensibile per il lettore occidentale ma che, nonostante questo, fa amare istintivamente il personaggio.
Morte nella steppa è sicuramente un esordio affascinante, un romanzo che appassiona: l’unico dubbio è quello della tenuta nei successivi romanzi, dove il fattore sorpresa verrà meno e dove alcuni limiti di intreccio potrebbero diventare evidenti.
Se siete curiosi restate con noi: recensiremo nei prossimi giorni anche il secondo e terzo volume della trilogia.
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